Renzi: agenda, tempi e numeri
Con la nomina dei Viceministri e dei Sottosegretari, il Governo Renzi ha completato la sua squadra, rispettando il giusto equilibrio tra le componenti della maggioranza. Non può che essere motivo di soddisfazione il fatto che quattro Popolari siano andati in dicasteri importanti come Esteri, Difesa, Istruzione e Politiche Agricole.
Ora che è al completo, il Governo Renzi dovrà mettersi rapidamente al lavoro per corrispondere alle tante promesse che il Presidente del Consiglio ha fatto davanti al Parlamento e all’intero Paese. Deve farlo secondo un ordine di priorità che tenga conto delle vere preoccupazioni della gente. La riforma elettorale, il titolo V, la riforma del Senato, sono cose necessarie, ma non immediate, la riduzione della spesa pubblica è principalmente legata ai risultati della spending review, la riduzione e semplificazione della burocrazia e la riforma della giustizia sono cose che richiedono tempo. Ma la situazione economica e, soprattutto, quella occupazionale (gli ultimi dati sono allarmanti) richiedono interventi rapidi ed efficaci.
Quando si pensa alla complessità dell’agenda è naturale chiedersi quali siano gli orizzonti temporali del Governo e su quali numeri possa contare, soprattutto al Senato. Sulla durata del Governo, ora che a Palazzo Chigi c’è lui, Renzi parla del 2018. Lo pensa davvero o si tratta di una maniera intelligente per rassicurare gli alleati, il Capo dello Stato, magari la generalità dei parlamentari (grillini e forzisti inclusi) per cui elezioni a breve termine sono il fumo negli occhi? È probabile che durare quattro anni non gli dispiacerebbe. D’altra parte, per una rivoluzione quale quella che egli si propone, un’intera legislatura non è troppo. E del resto, per quanti interrogativi sollevi l’attuale Parlamento, se si riuscisse a completare regolarmente le legislature ci avvicineremmo un po’ al modello di quel Paese normale che vorremmo essere. Ma è chiaro che nessuno può garantirlo, neppure Renzi. Lui stesso potrebbe a un certo punto concludere che è più conveniente per lui andare a elezioni per conquistare, grazie alla nuova legge elettorale, una maggioranza chiara e omogenea.
Ma non tutto dipende da lui. Chi può eventualmente insidiarlo? Non credo che possa essere l’opposizione. Grillo da una parte e Berlusconi dall’altra si sono dissennatamente autoisolati; possono fare chiasso in Parlamento, Grillo può riempire di insulti il suo blog, i fogli della famiglia Berlusconi possono rovesciare il solito carico di livore e di menzogne, ma né l’uno né l’altro hanno la reale possibilità di far cadere un Governo che abbia la maggioranza in Parlamento e l’appoggio del Capo dello Stato. Del resto, in Italia i governi non li fa mai cadere l’opposizione. Cadono o per una congiura nel partito di cui sono emanazione, o per una rivolta degli alleati. Solo per parlare degli ultimi venti anni, Berlusconi è caduto nel 1994 e nel 2011 per il tradimento di Bossi e poi di Fini; Prodi nel 1998 e 2008 per le pugnalate di Bertinotti, Dini, Mastella; D’Alema nel 2000; Amato nel 2001 e Letta adesso, per una decisione del PD. Può accadere a Renzi? La fronda nel suo partito, in attesa che attorno a Enrico Letta si formi un consistente contraltare, è per ora limitata a un piccolo numero di untorelli: sconfitti come Civati o perenni scontenti come Fassina, con scarsissimo seguito e quindi non in grado di costituire un serio problema per un Premier-Segretario legittimato dalla schiacciante vittoria nelle primarie. Quanto agli alleati, il pericolo può ovviamente venire da NCD. A me sembra improbabile che Alfano e i suoi, che hanno scommesso il loro futuro politico sull’adesione al Governo col PD (in cui occupano posizione di peso) siano tentati di mandare tutto a gambe all’aria (diversa sarebbe la situazione se il Cavaliere tentasse Alfano con la guida di Forza Italia e di un futuro governo, ma pare un’ipotesi lontanissima dalla realtà).
Nella fase di formazione del Governo, NCD ha messo paletti chiari sui temi sensibili dei matrimoni gay e della cittadinanza agli immigrati. Nei suoi interventi alle Camere, il Presidente del Consiglio ha mostrato la volontà di cercare compromessi accettabili, senza cedere alla sinistra radicale, e la sua prudenza è stata confermata dall’eliminazione della signora Kyenge dal Governo. Potrebbero sorgere problemi su un possibile aumento della tassazione sulle rendite finanziarie, ma potrebbero essere disinnescati se il Governo mantenesse (e se possibile diminuisse) il carico fiscale complessivo adoperando le nuove entrate per ridurre il cuneo fiscale a carico di lavoratori e imprese.
È anche importante che Renzi non alimenti il sospetto di star pensando a un cambio di maggioranza. La secessione di alcuni senatori grillini fa parlare l’eterna fabbrica di speculazioni sulla possibilità che gli alleati di centro siano sostituiti da un’armata Brancaleone composta da ex-grillini e vendoliani. I nostri geni della politica immaginaria fanno calcoli semplici: sette vendoliani, venticinque o ventisei grillini, il gioco è fatto. A me sembra un’illusione alla Pippo Civati. Se anche Grillo perdesse un’altra ventina di senatori (sarebbe bellissimo, ma per il momento è tutto da dimostrare), perché Renzi dovrebbe rinunciare alle alleanze che gli consentono un raccordo importante con i moderati per consegnarsi nelle mani della sinistra più indigeribile? Alla Camera ha una maggioranza larghissima (cortesia del Porcellum). Al Senato conta su 30 voti di più (169 sì, contro 139). Tanto per dire, Berlusconi nel 1994 ne aveva quattro; Prodi nel 2006 due; Berlusconi nel 2008 (prima della diaspora finiana) trentaquattro. Certo, l’esperienza ha mostrato che gli umori della politica possono passare bruscamente, e senza ragioni apparenti, da sereno a tempesta. Nelle prossime Europee, i partiti della maggioranza, che hanno ribadito (assieme al Premier) la propia fede europeista, dovranno fare fronte all’assalto concentrico della più sguaiata eurofobia grillina, berlusconiana e leghista. Se non andassero bene, potrebbe esserci burrasca. Anche per questo Renzi deve stringere i tempi sulle riforme promesse: non solo perché la situazione del Paese lo esige, ma perché se arrivasse a maggio senza risultati visibili e concreti, e ne pagasse il costo nelle urne, potrebbe avere difficoltà gravi a tenere insieme il suo partito e la sua maggioranza.
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