Nicolò Boggian: programmare futuro per sviluppo e crescita
A gennaio il tasso della disoccupazione in Italia ha raggiunto il record del 12,9%, in rialzo di 0,2 punti percentuali sul dicembre scorso e di 1,1 su tutto il 2013. I disoccupati italiani, secondo gli ultimi dati diffusi dall’Istat, sfiorano i 3,3 milioni. Attualmente il tasso di disoccupazione giovanile, per la fascia che va tra i 15 e i 24 anni, è pari al 42,4%: si tratta del tasso più alto dal gennaio 2004, data d’inizio dei conteggi mensili sull’occupazione generale.
A commento di questi ultimi dati, abbiamo rivolto alcune domande a Nicolò Boggian, 34 anni, sociologo e specialista nei temi dell’organizzazione del lavoro e delle risorse umane. Da settembre 2011 è il responsabile della nuova divisione Public Sector di “Michael Page International” e fondatore del network online “People In Touch”.
Come commenta il differente andamento sui dati inerenti alla disoccupazione giovanile rispetto a quella ordinaria? Si parla ormai di tassi molto elevati e al di sopra della media europea.
Mi sembra che negli ultimi anni la disoccupazione giovanile sia aumentata tendenzialmente più della disoccupazione in generale. Se pensiamo che nello stesso tempo il tasso di scolarizzazione si è innalzato e che lo stipendio medio di un giovane in Italia è più basso del 50% che nel resto d’Europa, ciò significa che molte delle aziende italiane, in particolare la Pubblica amministrazione, hanno perso l’occasione della crisi per ristrutturare il proprio organico. Per semplificare possiamo dire che si è preferito mantenere del personale con stipendi più alti e basso grado di istruzione e conoscenza delle lingue straniere, invece che sostituirlo con giovani più istruiti e meno costosi. Il risultato è stato una perdita netta di produttività.
In cosa hanno peccato, secondo Lei, le aziende italiane?
Spesso le nostre aziende hanno mostrato scarsa capacità di programmare il futuro: utilizzando male il capitale umano, si sono lasciate sopraffare dai mutamenti, rapidissimi, del contesto economico globale. Il campione di questa “sclerosi” è la Pubblica Amministrazione, in particolare le amministrazioni sopra una certa dimensione, in cui gli adempimenti burocratici e normativi sottraggono “benzina” alla produttività. Il risultato è che meno produttività significa meno posti di lavoro e ancora meno produttività, in una spirale che si autoalimenta.
Alla luce di questa analisi, che soluzioni ritiene di possibili?
La soluzione non si può trovare con la bacchetta magica e varia da caso a caso. In generale possiamo dire tre cose: occorrono buoni manager e buone organizzazioni, politiche attive del lavoro e un welfare tarato sulle esigenze della società e non su criteri astratti di giustizia sociale. Nello specifico, servono maggiori competenze da parte di chi dirige aziende ed organizzazioni, pubbliche o private che siano, il che significa una maggiore capacità di affrontare i cambiamenti, riorganizzarsi, tenere sotto controllo costi ed imprevisti, programmare il futuro. D’altra parte, il funzionamento perverso delle aziende italiane affonda le sue radici indietro nel tempo, in ragione della difficoltà di scardinare un forte statalismo normativo.
Basterebbe un ricambio generazionale per migliorare la qualità della gestione degli enti pubblici e privati?
Le aziende di Stato, le utilities e gli ex monopolisti che vengono presentati come gioielli nazionali solo perché usufruiscono di mercati protetti e sussidi “mascherati”, come organizzazione e qualità della dirigenza e del personale sono spesso ben al di sotto della sufficienza. In questo caso non basta un ricambio generazionale (gli under 35 sono il 10%, contro percentuali tre volte più alte in Europa), ma è necessario un netto ridisegno del sistema di regole, che si modelli su esempi virtuosi e non su regole derivanti da principi astratti, difficilmente applicabili.
L’Italia è anche la patria del clientelismo, specie per quanto riguarda il settore pubblico.
Il fenomeno esiste anche nel privato. Troppo spesso, infatti, vediamo imprenditori che preferiscono assumere un familiare o il figlio di un cliente, invece di programmare assunzioni qualificate a seconda delle proprie esigenze strategiche e qualitative. Allo stesso modo, continuiamo a vedere politici che nominano presidenti di enti pubblici ex politici con la terza media. Ugualmente, nelle società partecipate, ruoli di Amministratore Delegato o Direttore Generale vengono ricoperti da ex sindaci o politici a spasso, in totale assenza di un’analisi delle loro competenze. Se vogliamo tutelare i giovani dobbiamo fare più attenzione a questi fenomeni, che non sono per nulla residuali, ma interessano decine di migliaia di enti in tutto il Paese.
Come prospetta un diverso ruolo per il Sindacato? Da tempo se ne sente l’esigenza.
Ci vogliono più sindacalisti che capiscono d’impresa e sviluppo, che contestino le scelte manageriali sbagliate anziché proteggere posti di lavoro improduttivi e senza significato. Aggiungo che meno produttività del lavoro significa più esuberi. Le aziende in crisi che difendono i posti di lavoro non si riprendono, se non creano le condizioni per un nuovo sviluppo economico.
©Futuro Europa®
2 Comments
soldi buttati – occorre la formazione 8 ore gg per l’inserimento in nuovi posti di lavoro alleggerire la tassazione sulle imprese abolire l’IRAP contratto unico di lavoro credito alle imprese a tasso zero
mutui a tasso zero piano di ammortamento degli immobili
I numeri ripresi da Boggian dovrebbero massimamente preoccupare qualsiasi italiano. Invece pare che il fenomeno venga recepito fatalisticamente da una vastissima parte della popolazione. Fenomeno antropologico delle popolazioni sulla via del collasso: “ciascuno pensa a salvare sé stesso”. Comprensibile, ma non per i nostri amministratori che si sono proposti di governare a nostro favore. Peccato che non sia così. Ma poiché sono un romantico ottimista faccio finta di non vedere e immagino di parlare a persone interessate ad uscire non dal declino, ma dal collasso. Quindi, apprezzando le osservazioni di Boggian, mi sento di aggiungere qualche commento su alcuni principi enunciati nell’articolo, riferendomi alle singole domande.
1) Condivido. La meritocrazia esiste nell’AP. Peccato che il criterio del merito sia la fedeltà e non l’efficacia del lavoro.
2) La risposta è un po’ troppo complicata per la mia capacitò di comprendere. Tuttavia colgo alcuni concetti:
a. Programmazione sbagliata – possibile, ma non giudicabile. Il mercato è un giudice severo e implacabile.
b. PA – la domanda non riguarda la PA; ma è vero che la burocrazia appesantisce la produttività; ma non solo per la PA. Anzi la PA passa indenne, perché il costo dei servizi è sostenuto dalle tasse e non è esposto alla concorrenza sul prezzo. Noi paghiamo e nessuno valuta se il servizio avrebbe potuto costare meno
c. Il concetto di produttività è stato forzato, e deviato, dall’interpretazione sindacale, ovvero “stipendi bassi per tutti e uguale per tutti premiando la fedeltà e non l’efficacia”. È palese invece che la produttività schizza alle stelle se il prezzo del prodotto venduto è molto alto e quindi il costo del lavoro contenuto diventa basso (altà produttività del lavoro). Ovvio che per fare prodotti di alta qualità servono persone di alta qualità, persone non della medietà, ma dell’eccellenza pagate sul merito e non sulla fedeltà. Discorso lungo che però mi piacerebbe fosse rivisto invece di appiattirsi su una decotta e perniciosa visione sindacal-schiavista della produttività.
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5) Che il clientelismo sia anche nel privato è un fatto. Ma non condivido la critica. Mi pare molto umano che l’imprenditore sia anche un genitore che spera di vedere il proprio figlio in un grande futuro. Avendo investito nella propria impresa, quale più grande futuro alternativo può vedere? In definitiva, se il figlio fallisce, fallisce in proprio. Giusto che l’imprenditore impari a fare meglio, ma questo è sempre vero. E va bene suggerirgli di imparare, ma questo potrebbe essere un messaggio commerciale più che un suggerimento sociale. Del tutto diversa la situazione dell’AP e delle partecipate che amministrano il nostro capitale. Lì se i manager hanno comportamenti clientelari stanno operando contro l’interesse degli azionisti e per questo vanno immediatamente allontanati dall’incarico. La corruzione e il clientelismo non sono tollerabili, come invece pare sia comportamento e valutazione ormai generalizzata. Un piccolo peccato veniale ritenuto grave solo da qualche pignolo e intollerante.
6) Non condivido che il sindacato debba entrare nella valutazione strategica dell’impresa. La storia dice che ciò + accaduto applicando politiche (vedi fedeltà Vs merito) tremendamente errate. È onere e onore di chi mette capitale e mezzi, incluso scegliere e retribuire il personale, quello di provvedere al successo dell’impresa, o pagarne le conseguenze. Il sindacato dovrebbe invece preoccuparsi che non vengano esercitati abusi, che venga attivato un ascensore sociale in particolare per i giovani, che il mercato del lavoro faciliti la fuga dalle azienda “pericolosamente” gestite a favore di aziende invece più promettenti per i lavoratori.