Renzi e l’Europa

Matteo Renzi ha cominciato in chiave europea il suo discorso di presentazione alle Camere e lo abbiamo per questo applaudito tanto più in una fase di diffuso quanto grezzo euroscetticismo, se non eurofobia, alimentati dalla dissennata propaganda dei vari apprendisti stregoni intenti a rincorrere sentimenti di malumore creati dalla crisi, facendo ricadere su Bruxelles, Berlino ed Euro le colpe che sono nostre e dei governi che hanno preceduto quello di Mario Monti. Ha fatto bene ascoltare un Capo di Governo con il coraggio di rivendicare a sé stesso l’appartenenza alla “generazione Erasmus”, di affermare che l’Europa non è il problema ma la soluzione e che i conti dobbiamo tenerli in ordine non per far piacere alla Merkel o a Barroso, ma per i nostri figli. È un’evidenza, oscurata in passato da quei governanti che furbescamente hanno giustificato misure di rigore che pure erano necessarie attribuendole a una richiesta, anzi, a un’imposizione europea, e ovviamente negata da quelli la cui ricetta principale per il futuro è fare nuovi debiti, sempre nuovi debiti.

Poi il discorso europeo del Premier si è fatto più ambivalente. Si  sente in lui il bisogno di esporre in modo articolato (di “vendere”) le proprie idee, che sono alle volte difficili da far passare in un mondo dell’informazione approssimativo e impressionistico (una prova? I titoli sulle pretese “scintille” a Bruxelles tra Renzi e la Commissione). In questa direzione, ha trovato una formula sottoscrivibile – non ostili all’Europa ma nemmeno ossequienti – ed è andato molto in là nel rivendicare il peso dell’Italia, la necessità che l’Europa ha di noi come noi di lei, il fatto che non siamo studenti fuori corso sempre soggetti agli esami. Era ora! verrebbe voglia di dire a chi in Europa ha lavorato per anni e ha sofferto delle nostre timidezze, dei  nostri complessi, dei nostri provincialismi. Un episodio personale? Quando fui scelto dai Ministri degli Esteri della CE per dirigere il Segretariato di Politica Estera creato dal Trattato del 1986, nessuno in Italia capiva bene quali sarebbero state le mie funzioni, a cosa sarei servito, a cosa sarebbe servito avere un italiano in quel posto; e mezza Farnesina pensò, alcuni con una certa “schadenfreude”, che fossi entrato in un vicolo senza uscita, che avessi compromesso la mia carriera uscendo dal giro che davvero contava. E cosí sarebbe forse stato, senza la miracolosa lungimiranza del meno provinciale dei nostri Ministri degli Esteri, Gianni De Michelis.

Bene, dunque non andare a Bruxelles col cappello in mano, ma attenzione! Tutti i Paesi dell’Eurozona sono soggetti all’esame degli organi comunitari, organi che noi stessi abbiamo liberamente creati e ai quali, di trattato in trattato, abbiamo conferito poteri sempre più estesi e vincolanti (costituirli guardiani dell’ortodossia finanziaria è stata una scelta accettata anche da tutti e da noi particolarmente impulsata). Come noi sono soggetti ad esame gli altri grandi Paesi, la Francia come la Spagna e la stessa Germania. È poi un fatto della vita che alcuni siano osservati con maggiore attenzione di altri e che da questo punto di vista l’Italia si situi per occhiutezza di controlli a metà strada tra Paesi dalle finanze virtuose come quelli del Nord e Paesi da sottoporre a una sorta di commissariamento, come la Grecia. Può non piacerci, ma è il frutto di decenni di inadempimenti e di furberie, di un debito che, per percentuale del PIL, non ha eguali in Europa e, certo, forse anche dei cliché che i nordici hanno su di noi: abili a promettere, a inventarci finanze creative, poco seri nel mantenere gli impegni.

Ora, fa benissimo Renzi a rivendicare con orgoglio la nostra importanza e ad affermare perentoriamente che siamo sul cammino di realizzare quelle riforme che (non dimentichiamolo) è l’Europa a chiederci da anni. Ma deve stare attento a mantenere un discorso chiaro e comprensibile per gli altri europei, non abituati alle sottigliezze del nostro politichese, un discorso semplice e onesto che non faccia sorgere equivoci. Faccio un esempio: che senso ha dichiarare che rispetteremo i vincoli di deficit e allo stesso tempo definirli anacronistici? Se lo fossero, avrebbe ragione chi, a destra e a sinistra, chiede a gran voce che siano rinegoziati. Ma anacronistici non sono: lo sarebbero se avessimo un debito pubblico di dimensioni maneggiabili e potessimo permetterci di rilanciare economia e occupazione aumentando la spesa. Ma come ci insegna la durissima esperienza dell’autunno 2011, le cose stanno messe in modo diverso. L’affermazione di Renzi sarebbe una innocua chiacchiera da Caffè del commercio, se non venisse dal Presidente del Consiglio di un Paese chiave dell’Eurozona. Se il Premier insistesse su questi distinguo (buoni  forse per orecchie italiane) risusciterebbe quella diffidenza di cui abbiamo sofferto ai tempi di Berlusconi e da cui eravamo faticosamente usciti con Monti e Letta con una politica fin troppo “ossequiente”.

Poi, Renzi ha tutte le ragioni di chiedere un’Europa diversa, meno burocratica, più vicina ai cittadini, un’Europa che sia motore di crescita di tutta l’Eurozona, che sappia parlare ai cuori e all’immaginazione. Non sarà facile. Nei decenni si è venuta stratificando a Bruxelles una macchina amministrativa che non ha niente da invidiare per pesantezza a quella nostra (all’inizio non era cosí: il ristretto gruppo di funzionari che misero in marcia l’integrazione venivano in buona parte dalle grandi scuole francesi e tedesche di amministrazione). Come insegnano le vecchie leggi di Parkinson, una burocrazia finisce per diventare sempre autoreferenziale e chiusa al mondo reale. Se il Premier si propone di cambiare le cose, va incoraggiato e sostenuto. Se riesce davvero a smuovere il pachiderma della PA italiana, forse qualche possibilità ce l’ha anche a Bruxelles. Ma per farlo occorre essere credibili a casa e nell’orientamento europeo senza compromessi e tutto questo richiede fatti, fatti e fatti.

Di fronte alla magnifica avventura dell’integrazione europea ci sono tre atteggiamenti possibili. Ai due estremi, una forma di appiattimento servile che abbiamo a lungo praticato e una criminale voglia di uscirne, di cancellare anni di progresso civile e ritornare ai dissennati nazionalismi del passato. Poi c’è un atteggiamento sano: partire dall’Europa come un dato acquisito, irreversibile, e battersi dal di dentro per farla avanzare (per esempio nei campi della Difesa e della Politica Estera) e renderla migliore. Renzi sembra collocarsi in questa terza posizione, spinto sia dalla necessità di trovare una forte sponda europea per la nostra crescita, sia dalla considerazione del tutto politica che, senza un rapido scossone, l’Europa rischia di uscire malconcia dalle elezioni di maggio (come il PD e lo stesso Premier con lei). Già risuonano gli sberleffi deliranti ma pericolosi di un Grillo.

A Renzi serviranno tutta la sua abilità dialettica, tutta la sua energia, tutta la sua fantasia. Ma andranno accompagnate da un discorso chiaro, lucido e in totale buona fede (la buona fede ha un suono che tutti intendono). I coprotagonisti in Europa sono politici di lungo corso, forti nei rispettivi Paesi, con i conti in ordine e abituati a giudicare i fatti, non le belle parole. Farsi prendere sul serio da loro è certo più difficile, ma infinitamente più importante, che convincere i vari Fassina e Civati.

©Futuro Europa®

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Un Commento

  • Non è dubbio che l’Italia, malgrado l’autorevolezza di Monti,abbia progressivamente perduto il suo peso nella costruzione del processo di integrazione. Monti ha iniziato il suo percorso governativo con il messaggio più europeo possibile, presentandosi prima a Bruxelles e solo poi ai parters europei: e quindi riaffermando il “metodo comunitario”, da alcuni anni in crisi per le spinte francesi e tedesche, a favore del metodo intergovernativo.
    L’approccio di Renzi è meno teorico, ma molto più concreto: e comunque in linea con una tradizione, che certamente lui non ha vissuto (proprio perchè appartiene alla generazione Erasmus), ma che probabilmente percepisce. Quella del ruolo fondamentale ed irrinunciabile dell’Europa, non solo per lo sviluppo dell’economia ma anche per la pace e i diritti umani. E specialmente del ruolo dell’Italia: senza il cui apporto l’Unione Europea è diversa. Renzi sa che, al di la di De Gasperi, Spinelli (costantemente ignorato, peraltro, in vita e considerato altro rispetto al processi di integrazione),Martino ecc., l’Unione che conosciamo è stata costruita da italiani che costantemente lavoravano nelle istituzioni (nella Corte, nella Commissione ecc., molti dei quali sono tra i primi ad essere scettici per la piega in chiave politica da una parte e intergovernativa dall’altra che ha preso il processo di integrazione).
    Oggi si deve ricostruire l’Unione Europea superando le storture degli ultimi anni (alle quali anche l’Italia non ha saputo opporsi): superare quindi l’approccio politico della Commissione (che è e deve restare organo tecnico e terzo), l’eccesso di burocrazia, ma specialmente puntare alla crescita (evitare il centralismo economico, rivedere i dossier nel settore del commercio internazionale – non possiamo pensare di isolarci chiudendoci agli Stati Uniti, alla Cina ecc. solo per proteggere le nostre imprese, attuare meglio la regolazione dei mercati relativamete alla quale l’approccio europeo è molto timido) .
    Per l’Italia e per Renzi il primo problema, però, è dimostrare di essere capaci di fare questo lavoro di riforma a casa nostra: e così di essere degni del percorso di integrazione dei padri fondatori italiani e specialmente di quanti hanno continuato la loro opera negli anni 70, 80 e in parte degli anni 90). E così, prima di invocare modifiche al patto di stabilità (del tutto logiche), fare vedere che le riforme vere le sappiamo fare anche se così difficili e impopolari: le riforme della amministrazione pubblica (pletorica, spesso impreparata, spesso inutile), dell’economia nazionale (pagamenti dei debiti alle imprese attuando “senza se e senza ma” la direttiva 7/2011 che comunque produce effetti diretti, liberalizzando
    ma anche regolando bene i mercati, tutti oggi ancora molto consociativi, privatizzando le imprese pubbliche con forme davvero convincenti e, ove possibile, dando luogo a public companies, riducendo le imposte sui redditi a non oltre il 30 %). Un lavoro enorme che tuttavia è la precondione per essere credibili come Paese .

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