Un Americano a Roma
La visita del Presidente Obama a Roma è andata al di là delle consuete formalità internazionali. Ciò innanzitutto per la personalità del Presidente, per l’impegno da cui è manifestamente animato a migliorare le sorti della gente, molto vicino in questo a Papa Francesco. L’incontro tra i due è stato, dunque, visibilmente emotivo.
Ma anche il versante “italiano” della visita ha avuto aspetti significativi. I rapporti italo-americani sono stretti e calorosi da sempre, ma con questo Presidente si sono caricati di un elemento in più di amicizia e di ammirazione. L’incontro con il Capo dello Stato, durato al di là del previsto, non è stato certamente formale. I due si conoscono e si stimano da tempo, tra loro c’è amicizia e mutuo rispetto. Non credo di rivelare un segreto se dico che Giorgio Napolitano ammira e ama gli Stati Uniti almeno dagli anni Settanta. Fu lui stesso a commentarmelo una sera, nella mia residenza di Ambasciatore alla NATO. Mi raccontò come fosse stato difficile per lui, formatosi nell’avversione coltivata dal PCI per il “grande imperialista”, superare tutti i pregiudizi. Dapprima volle conoscere da vicino la realtà della NATO e fu il primo deputato comunista a far parte dell’Assemblea Parlamentare Atlantica. Poi volle vedere lui stesso, da vicino, la realtà americana. Fu il primo esponente comunista ad avere il visto, a quel tempo difficilissimo. Viaggiò per settimane negli Stati Uniti, incontrò esponenti di tutti i generi. Ne tornò affascinato dal benessere, dalla libertà, dalla diversità di un Paese che la propaganda comunista, sulla scia di quella sovietica, dipingeva come un inferno capitalista. Gli fu facile compararlo alla Russia sovietica che egli conosceva bene, e dal paragone nacquero le ragioni di quello strappo con Mosca che fu probabilmente penoso, ma netto e irreversibile. I Presidenti americani vengono e vanno e ognuno marca a suo modo la Storia. Non vi è dubbio che Napolitano si senta più in armonia con un personaggio con Obama che con, mettiamo, George W. Bush.
Anche l’incontro con il Presidente del Consiglio mi sembra essere andato al di là delle consuetudini. Nella conferenza stampa congiunta è emersa una simpatia reciproca non formale e sono convinto che l’appoggio manifestato dal Presidente al nostro Premier sia reale. Tempo fa, quando Renzi lanciava la sua sfida nel PD, D’Alema commentò con sufficienza: “Ve lo immaginate questo ragazzo a parlare con la Merkel?” Ma Renzi sembra muoversi a suo agio tra i grandi della Terra, con entusiasmo un po’ goliardico ma anche senza servilismo. Dopo la sua visita a Berlino, i vari Grillo e Salvini lo accusarono stupidamente di essersi “inginocchiato alla Cancelliera”. A me Renzi non pare tipo da inginocchiarsi troppo e sono convinto che in Germania abbia detto con chiarezza quello che si aspetta dall’Europa. Su questo punto ha registrato l’appoggio di Obama, un appoggio certo utile, anche se non so quanta influenza concreta abbiano gli Stati Uniti sulle vicende interne dell’UE.
Va da sé che al centro dell’incontro di Villa Madama ci sia stata la crisi ucraina. Mi è parso che tra i due ci fosse sintonia sull’esigenza, da una parte di non rompere il filo del dialogo con Mosca, ma dall’altra di far pagare a Putin il prezzo del suo comportamento in violazione di tutte le norme dello Statuto dell’ONU, isolandolo politicamente e, se occorre, economicamente (tra parentesi, che vergogna Berlusconi che considera “avventata” la sospensione della Russia dal G8! Capivo che fosse imbarazzato a criticare il suo amicone e socio in affari Putin, ma per decenza poteva stare zitto e non mostrare allo scoperto il suo “cupio serviendi”).
Altro tema toccato a Villa Madama è stato quello dei marò, e non penso sia dubbio l’appoggio americano. A proposito dei marò, avevo osservato sin dall’inizio che l’India è un Paese con una tradizione giuridica formata su quella britannica e che non meritava sfiducia a priori. Faceva dunque bene il Governo italiano a percorrere innanzitutto le vie legali, assieme a quelle dell’appoggio internazionale. L’ho scritto quando da varie parti si chiedevano chissà quali gesti di rappresaglia. Ora l’Italia ha avuto una seconda piccola vittoria. La prima consistette nell’aver la Giustizia indiana rinunciato a giudicare i marò sulla base della legge antiterrorismo. La seconda è consistito nell’accogliemento da parte della Corte Suprema indiana del ricorso volto a invalidare le indagini affidate alla polizia antiterrorista. La battaglia è lungi dall’essere vinta, ma almeno si presenta con rischi più ridotti per i due Fucilieri di Marina.
Ma sulla visita di Obama non poteva mancare l’ennesima farneticazione di Grillo, il quale (credetelo o no!) ha dichiarato che il Presidente è venuto “a vendere gli F35 e il gas”. Certo, le cose le giudica dal suo livello! Nel merito, però, quanto al gas, se gli Stati Uniti sono in grado di fornirne all’Europa, c’è solo da esserne lieti per diminuire la dipendenza da fonti imprevedibili come la Russia. Quanto agli F35, è logico che il Presidente degli Stati Uniti difenda gli interessi della Lockheed. Ed è altrettanto logico che il Governo voglia riesaminare la questione senza pregiudizi, alla luce dei nostri interessi. Il programma di fabbricazione degli Starfighter è nato nel 1998, al tempo del Governo Prodi ed è stato confermato da tutti i governi successivi. Ma fu sin dall’inizio una faccenda discussa; l’F35 è stato oggetto sin da quando ha cominciato a volare negli USA di forti critiche da parte di molti esperti, compresi piloti dell’USAF. In alternativa agli aerei americani c’erano gli Eurofighter di fabbricazione franco-anglo-tedesca. Una prima decisione impegnativa fu presa nel 2001 dal Governo Berlusconi a favore della Lockheed e provocò le dimissioni del Ministro degli Esteri Ruggiero. La decisione finale fu presa, sempre da Berlusconi, nel 2009. Al di là delle motivazioni tecniche e di ricadute industriali, la scelta fu certamente dovuta anche a valutazioni di politica internazionale. Adesso, però, non vi è dubbio che sarebbe molto difficile tornare indietro su un programma in fase avanzata e per cui sono stati spesi già molti soldi, anche per costruire gli stabilimenti italiani dove dovranno fabbricarei parti essenziali del velivolo. La nostra Aeronautica Militare non può aspettare altri decenni nuovi aerei da combattimento e la portaerei Cavour rischia di essere poco utile senza velivoli di nuova generazione. Ma è anche vero che il costo del programma è venuto lievitando e in tempi difficili pesa molto e non è irragionevole pensare che possa essere dimensionato e reso più sopportabile nel tempo (già il Ministro Di Paola, con Monti, aveva ridotto da 130 a 90 gli aerei da acquistare). È comunque un tema di grande complessità, che va trattato con serietà e competenza, al riparo dei deliri grillini e vendoliani. Lo esige l’interesse dell’Italia ad avere sistemi di difesa in grado di proteggerci efficacemente dai rischi che non mancano anche nella nostra parte di mondo.
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