Salatto (PPE-PI), cinque anni al Parlamento Europeo
Fa un caldo inusuale per essere una giornata di inizio primavera a Strasburgo. Il sole riempie di luce i vetri del Parlamento europeo, mentre un vento leggero fa oscillare lievemente le bandiere che svettano all’ingresso. È una delle ultime sedute della settima legislatura, ma non c’è traccia del clima di smobilitazione che ci si potrebbe aspettare. C’è il solito, piacevole clima leggermente inquieto delle giornate cariche di impegni. Il solito viavai degli assistenti accreditati che fanno la spola tra gli uffici e gli ingressi della plenaria, piccoli gruppi di deputati che si scambiano impressioni tra una pausa dei lavori e l’altra, scolaresche tenute a bada a fatica dagli insegnanti intente immortalano ogni dettaglio degli interni con il telefonino.
L’onorevole Potito Salatto è un perfetto padrone di casa: si presenta all’ingresso in anticipo rispetto all’appuntamento, mostra i vari angoli della moderna e imponente struttura, a volte rallenta per raccontare un episodio, ricostruire un aneddoto o, in un attimo di silenzio, inseguire un ricordo. Sono passati ormai cinque anni dalla prima volta che ha messo piede nell’aula di Strasburgo ed è arrivato il momento dei bilanci.
Onorevole, come descriverebbe questa esperienza?
«È stata davvero esaltante. Ho avuto il privilegio di stringere rapporti e, in alcuni casi, creare autentiche amicizie con colleghi di grandissimo livello e dalla consolidata esperienza, sia nel loro Paese che sul piano internazionale. Insieme, ci siamo cimentati nel non facile compito di fare l’interesse delle nostre nazioni di appartenenza e, soprattutto, dell’Europa tutta».
Solo rose, dunque? Nessuna spina?
«Se devo essere sincero, qualcosa che mi amareggia c’è».
A cosa si riferisce?
«Alla mancanza di un rapporto organico, concreto, continuo, con il nostro Governo. Che, a volte, anzi troppo spesso, sembra dimenticare il peso, il ruolo, le opportunità che possono arrivare dagli eurodeputati italiani».
Potrebbe fare un esempio concreto?
«Tra le varie sfide che ho cercato di raccogliere a Strasburgo, c’è stata quella di prendere in mano l’intergruppo Sky & Space che doveva occuparsi, e che ancora si occupa, della politica spaziale europea. Un settore cruciale che nelle precedenti legislature era stato terreno esclusivo degli inglesi, abili a fare il bello e cattivo tempo a tutto vantaggio di Parigi. Con il mio ingresso ho cercato di portare il ragionamento su un piano diffuso, così come doveva essere dall’inizio, anche a salvaguardia delle nostre industrie del settore. Passi in avanti ne abbiamo fatti parecchi, però nel collegamento con l’Italia tutto si è arenato poiché non siamo riusciti a instaurare un dialogo organico con i ministeri e i ministri competenti. E questa lacuna riguarda tutti gli europarlamentari italiani, che non trovano un modo per costruire un ponte con Roma. Perdendo tante occasioni. Sinceramente, è un vero peccato».
Da cosa pensa dipenda? Sicuramente si sarà fatto un’idea precisa.
«Da un atavico provincialismo».
Qual è la differenza tra voi e gli eurodeputati degli altri Paesi?
«Il punto è che noi italiani eleggiamo gli europarlamentari con il sistema delle preferenze in collegi enormi. Altri, invece, utilizzano le liste bloccate. Il risultato è una forte differenza nel turnover: ci sono colleghi greci e spagnoli, per esempio, che sono da vent’anni a Strasburgo e conoscono a memoria la macchina amministrativa burocratica, essenziale per incidere nell’Ue».
I nostri, invece?
«Sono vittime di uno strano meccanismo. Chi è a Strasburgo viene assorbito dai processi burocratici, al fine di farli propri il prima possibile, e sembra tralasciare il territorio che lo ha eletto. Ma lo fa perché non ha scelta, perché è calato con tutte le sue energie nella nuova realtà. Diciamolo pure: perché deve imparare a difendersi, e a difendere il proprio Paese, dalla concorrenza agguerrita di colleghi più preparati, che giustamente le tentano tutte per portare acqua al loro mulino. Insomma, concentrarsi totalmente sul Parlamento e le sue logiche è l’unico modo per riuscire a essere minimamente attivo. Chi invece rimane sul territorio, può coltivarlo a fondo, con intelligenza e un minimo di furbizia e strategia. Finendo così per essere eletto al giro successivo, scalzando chi aveva cominciato ad accumulare l’esperienza necessaria per essere attivo a livello comunitario».
In effetti è abbastanza curioso come meccanismo. E non sembra il massimo dell’efficienza.
«Per non parlare del fatto che al danno si aggiunge la beffa. Il sistema delle preferenze viene spesso criticato perché si presterebbe a fenomeni di corruzione verso l’elettorato da parte di candidati assetati di voti. Tale biasimo parte proprio dai parlamentari nominati, eletti con le liste bloccate, che si arroccano dietro questa scusa per difendere i loro privilegi. Dimenticando che un eurodeputato, per entrare in carica, ha bisogno di un numero enorme di suffragi, tra 40 mila e 130 mila voti di preferenza, dunque davvero difficili di manipolare. Specie perché i collegi inglobano numerose regioni, sono sparse, diffuse: non parliamo di una città o di una provincia. Inoltre, tra gli europarlamentari, nessuno è indagato. Nel parlamento invece, sono numerosi i deputati e senatori ad avere qualche grana con la giustizia».
Qual è la conclusione?
«Semplice. Che la moralità è un fatto individuale. Non dipende certo da un sistema elettorale».
A una legislatura che si chiude ne fa sempre seguito un’altra che si apre. Che caratteristiche dovrebbe avere secondo lei per essere davvero incisiva?
«Essere costituente per cambiare un’Europa che, così, proprio non va. I sentimenti antieuropei, la diffidenza che serpeggia in tutto il Continente a causa della crisi corre il rischio di far implodere il sistema attuale. Che possiede grandi meriti, ma va rivisto e adeguato a quelle che sono le esigenze del momento».
Da dove partirebbe?
«Da riforme istituzionali urgenti e significative. Per esempio, ritengo che il presidente della Commissione Europea debba essere eletto direttamente dai cittadini europei, così come quello del consiglio dell’Unione Europea».
A che scopo?
«Dare loro un’investitura che sia il più possibile diffusa, partecipata, dal basso. Mentre i Commissari dovrebbero essere scelti dal Parlamento di Strasburgo, in modo che possano essere slegati dal governo che li ha nominati, che non cadano più nella tentazione di difendere gli egoismi nazionali».
Il secondo passo?
«Rivedere i trattati che oggi sono superati. Come il “Basilea 3”, che prevede grandi capitalizzazioni per le banche mettendole in condizione di non elargire il credito. Un assurdo in un quadro in cui le piccole medie imprese soffocano e chiudono per mancanza di quel denaro che proprio gli istituti di credito gli negano».
E poi?
«Poi penso al regolamento di Dublino sull’immigrazione, ormai superato dai fatti. Non dà nessuna garanzia di integrazione a quanti, migrando in Europa, tentano di inserirsi nelle società dei singoli Stati. Peggio ancora, non definisce chiaramente le condizioni per l’asilo politico, non dispone la creazione di strutture adeguate per poter accogliere in maniera più umana gli immigrati e salvaguardare i loro diritti civili. Servono regole migliori di quelli attuali, regole che ci toccano direttamente, visto l’alta percentuale di arrivi nel nostro Paese».
Onorevole, l’impressione è che le cose da fare siano davvero tante. Ci sono le condizioni, o si rischia che rimangano buoni propositi sulla carta?
«Ci vuole una forte volontà di rinnovamento che deve caratterizzare non solo l’Italia, ma tutti i Paesi che oggi soffrono di più per la crisi. Quelli che si affacciano su Mediterraneo in particolare: Portogallo, Francia, Spagna e Grecia. Tutto ciò per arrivare a una reale Europa dei popoli, evitando di assecondare la tentazione tedesca sempre presente e viva di realizzare un’Europa della Germania. Un’Europa d’impronta tedesca».
Al di là delle tentazioni accentratrici della Merkel, il pericolo più diffuso sembra però essere l’antieuropeismo. Il rifiuto stesso del concetto di Europa. Le ragioni?
«Si ritiene che la stretta economica di risanamento voluta dall’Ue sia la principale responsabile della crisi generale. Questo è vero in parte, nel senso che ogni Paese ha le sue colpe che hanno generato la situazione critica nella quale versiamo. Non c’è dubbio che un’azione di risanamento andava fatta, però, a livello soprattutto locale, il tempo è scaduto. Se si continua a strozzare economicamente le singole società, si corre il rischio di ucciderle. Una dieta è valida fino a un certo limite, oltre il quale l’organismo deperisce e muore».
Chiarissimo. La sua idea è che i singoli Paesi hanno trovato come facile scappatoia quella di addossare tutte le responsabilità all’Europa. Di nuovo, dunque, come può Strasburgo ritagliarsi un ruolo di primo piano, soprattutto in questo clima di ostilità diffusa? Tutto sembra suggerire il contrario.
«Partendo proprio da una nuova legislatura costituente, che giunga a un’unità di politica estera, a un’unità di difesa con forze armate uniche europee e non dei singoli Stati. Ci sono tutte le condizioni. Oltre a essere più razionale, potrebbe generare notevoli risparmi in termini di spesa. Penso inoltre a un’unità bancaria, una fiscale, un progetto d’intervento che eviti le delocalizzazioni all’interno della stessa Europa delle aziende, stabilendo per esempio un minimo salariale unico su tutto il territorio dell’Ue al di sotto del quale non si può andare. Qualcosa di simile alla direttiva già varata che rende univoca la sanità con possibilità di trasferimento da un Paese all’altro senza i vincoli e le ristrettezze di una volta. È la prova che, se c’è la volontà politica, certe riforme si possono portare fino in fondo. L’augurio è che il semestre di presidenza italiano possa essere un reale stimolo per questo cambiamento».
A tal proposito: com’è vista l’Italia in Europa?
«Sinceramente, è guardata sempre con apprensione per i mutamenti politici che la caratterizzano e per le tensioni che ne derivano. Che non danno il senso della stabilità e dell’autorevolezza delle istituzioni».
Onorevole, lei sembra avere le idee molto chiare. Su quello che finora non ha funzionato in Europa, su ciò che andrebbe fatto per cambiare le cose. Sembra avere accumulato quell’esperienza necessaria per incidere di cui parlava prima. Eppure, ha deciso di non ricandidarsi. Ci spieghi perché.
«Dipende intanto da dato anagrafico. Ho compiuto 72 anni, anche se tutti dicono che non li dimostro (ride, ndi). Ritengo che sia arrivato per me il momento di esaurire la mia esperienza istituzionale. Un’esperienza ricca, piena di soddisfazioni, articolata e supportata sempre da elezioni con le preferenze: due legislature comunali, altrettanto regionali, più i tantissimi impegni internazionali con le Nazioni Unite, fino al fiore all’occhiello del mandato a Strasburgo, che un po’ chiude il cerchio del mio percorso. Credo sia opportuno e doveroso dare spazio a nuove energie. Certo, supportate da quell’esperienza che ognuno di noi, me incluso, può esprimere a loro sostegno».
Qual è oggi la sua priorità?
«Dedicarmi con tutte mie forze alla realizzazione del Partito Popolare Italiano nel contesto più ampio del PPE».
Come mai è così centrale, secondo lei?
«Il nostro Paese, così come tutto l’Occidente, sta attraversando una crisi morale, di valori, di idee. Tutti sentimenti che vanno riscoperti, enfatizzando la loro positività, in collegamento con la storia e la cultura di ogni singolo Paese. Noi vogliamo rinnovare questi sentimenti e ideali perché li riteniamo una condizione essenziale per un salto culturale che generi anche una ripresa economica. Che agevoli il recupero di una piena autorevolezza delle istituzioni finora comunemente bistrattate».
Da dove arriva l’ispirazione, la spinta verso questa direzione?
«Da quei valori che furono espressi da De Gasperi, Adenauer, Schuman in Europa. E, senza alcun complesso di inferiorità, dai cattolici democratici che hanno governato per più di 50 anni il nostro Paese portandolo a livelli economici invidiati a livello internazionale. Il tutto in un quadro apocalittico, ben più grave di quello attuale: l’Italia usciva dalla Seconda Guerra Mondiale, era ridotta ai minimi termini, ereditava macerie e povertà. Eppure, ce l’ha fatta. Con la buona volontà e le giuste idee, si arriva lontano».
I giovani hanno la stessa buona volontà e le giuste idee?
«Sono convinto che le nuove generazioni sentano il bisogno di credere in qualcosa, di ritrovare una speranza nel loro futuro. Dobbiamo essere noi portatori di esperienze notevoli. Dobbiamo essere noi a ridare questa fiducia e questa speranza creando punti di riferimento elettorali e politici che siano adeguati e moderni».
Come?
«Facendo ritrovare il senso della comunità, dell’equilibrio sociale, della partecipazione, della meritocrazia. Insistendo sul ruolo della morale e della trasparenza dei comportamenti».
Sinceramente, sembra un po’ complicato.
«Non lo è se questi obiettivi diventano un impegno comune di persone responsabili. E queste persone ci sono. Non posso immaginare che non esistano. Non posso credere che non ci sia questo senso di responsabilità, anche se a volte atteggiamenti di tipo mediatico prevalgono sul buon senso, sul ragionamento, sulla capacità di ragionare. Ciò che lascia perplesso chi ha vissuto una lunga esperienza politica come la mia è che un Paese come l’Italia abbia, almeno formalmente, come punti di riferimento: un ex chansonnier come Berlusconi, un ex comico come Grillo, un sindaco di una città con meno di 400 mila abitanti. Tutte e tre figure fuori dal Parlamento».
Non le piace Renzi?
«Renzi è ritenuto l’ultima speranza, anche se è guardato con una naturale diffidenza per il modo con il quale è arrivato alla presidenza del Consiglio e anche per la genericità del suo impegno di Governo. Vedremo quanto prima se tutto ciò si rivelerà una cosa seria o un bluff».
Torniamo un attimo sui giovani. Come fanno oggi a entrare in politica, a ritagliarsi uno spazio?
«Purtroppo per loro non ci sono punti di riferimenti territoriali. Sono mediati da internet e, troppo spesso, risultano effimeri, irreali. Ecco perché il Partito Popolare in Italia deve dare vita a un attivismo che vada città per città, paesino per paesino. Una presenza che sia da riferimento per chiunque voglia dedicarsi alla politica».
E su un piano più generale?
«L’’esigenza è la stessa che ha avuto il Pd di inserirsi ufficialmente nel filone socialista europeo. Il PPE, lo ribadisco, è il traguardo dei Popolari, in particolare quelli rappresentati oggi da Mario Mauro e Lorenzo Cesa. Non c’è altra strada per sconfiggere il populismo imperante sia a destra che a sinistra».
Quali effetti benefici potrà generare questa nuova rotta?
«Un complessivo rilancio dell’Ue. L’orgoglio di considerarsi cittadini europei di estrazione italiana. Con meno provincialismo, con una classe dirigente che non vanti come merito solo il fatto anagrafico».
Prima di chiudere. Qual è il ricordo più bello di questi cinque anni che porterà per sempre con sé?
«Tra tante cose grandi, una piccola, però enorme. Aver salvato due ragazzi, due dissidenti iraniani, che dalla Turchia stavano per essere riportati a Teheran per essere impiccati. Non trovo una prova migliore del fatto che la politica possa fare la differenza. In modo enorme».
Potrà farla sempre meglio, nel futuro prossimo, per lasciarci finalmente alle spalle questo brutto periodo di crisi?
«Io penso di sì. Non avrei mai potuto scegliere questa strada se ad accompagnarmi non ci fosse una forte dose di ottimismo».
Pensa sia possibile riassumere in una frase sola tutto il suo lungo impegno politico?
«Ne prenderei in prestito una dallo scrittore Paulo Coelho. Che dice: “Ho commesso alcuni errori, ma non sono stato vigliacco. Ho vissuto la mia vita e ho fatto ciò che dovevo fare”».
[A questo link è possibile ascoltare anche un’intervista all’On. Salatto, ospite della trasmissione “Europa 24 Notte” su Radio24, NdR]
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