Una sorta di grande Erasmus per l’Europa
In un articolo precedente, ho ricordato le ragioni che rendono imperativo per l’Italia restare attivamente impegnata nell’integrazione europea, della quale è pilastro portante sin dal 1957. Ragioni pratiche, che hanno a che fare con molto concreti interessi economici e finanziari, quelli a cui, secondo l’opinione corrente, la gente è sensibile (apparentemente, parlare di ideali alle generazioni moderne è tempo perso). Ho ricordato i grandi vantaggi dell’euro, la necessità di responsabilità fiscale indipendentemente dai vincoli di Maastricht, del resto liberamente accettati. Avrei potuto aggiungere molte altre cose: la relativa debolezza dei singoli Paesi europei in un mondo di giganti politici, economici e militari, la conseguente necessità per il Continente di unire le proprie forze, se vuol fermare la propria decadenza, continuare a esistere e pesare con forza autonoma nei campi dell’economia, della scienza, del potere (e non diventare semplicemente il “play-ground” del mondo). Ma ora è il momento di parlare anche delle carenze dell’Europa reale, quelle vere, non quelle immaginarie, e che pur contribuiscono a ingenerare il clima di sfiducia che è possibile riscontrare in Italia e altrove.
Ho dedicato alla costruzione europea molti anni del mio lavoro e credo di conoscerne bene i meccanismi. Un fatto è innegabile: con il progressivo ampliarsi dell’Unione e, in parallelo, delle sue competenze, si è venuta man mano creando una struttura burocratica “pesante” che tende ad essere, come di solito accade, autoreferenziale. È cresciuta al tempo stesso la massa delle norme, ormai un vero e proprio labirinto. Gli organi comunitari si sono sempre piú dedicati a un’opera minuziosa e pervasiva di standardizzazione, magari utile ma alla volte esagerata e non senza qualche elemento di assurdità. Il principio della “sussidiarietà”, che negli anni Ottanta e Novanta molti di noi sostennero come un argine alla proliferazione della normativa comune, fu in pratica trascurato. Un aspetto particolarmente carente sta nell’aver poco a poco smarrito la ragion d’essere principale dell’Unione: essere un’area di sviluppo economico e sociale condiviso, sviluppare una propria politica estera coerente e autorevole e, sì, anche unificare le forze militari dei Paesi membri in una difesa veramente comune ed efficace. In particolare dopo il fallimento della Costituzione Europea (l’ultimo tentativo di dar forma e vita ai grandi ideali iniziali) e come conseguenza diretta della crisi finanziaria del 2008, ha prevalso la preoccupazione quotidiana di mantenere le finanze dei Paesi membri sotto controllo.
L’ho più volte scritto: questa era e resta una necessità, se non vogliamo compromettere l’avvenire nostro e dei nostri figli con il peso di un debito insopportabile. Ma senza dubbio ha prevalso a Bruxelles una visione contabile, poco attenta al fatto che le finanze migliorano non solo quando si spende di meno o aumentano le tasse, ma quando l’economia in crescita genera maggiori introiti fiscali. Forse era inevitabile che tutto ciò accadesse (le Leggi di Parkinson sono sempre valide!) ma tutto ciò ha contribuito a dare dell’UE un’immagine negativa, meno politica, più burocratica. Mentirei se non dicessi che parte della responsabilità la portano le persone che in questi anni hanno incarnato le istituzioni. Persone perbene, come Barroso o Van Rompuy, gestori affidabili e privi di manie di grandezza, ma sostanzialmente grigi. Lontani dai modelli di personalità del passato, come l’indimenticabile Jacques Delors, al quale si devono i grandi progressi dell’integrazione nella felice decade degli Ottanta, quelli che videro storici passi in avanti e il lancio, con il Libro Bianco della Commissione, di un grande piano di infrastrutture d’interesse continentale. Quest’anno le grandi cariche scadono. Bisogna scegliere personalità all’altezza delle sfide del tempo.
È possibile voltare pagina e ritornare alle ispirazioni ideali? Io credo di sì. L’emergenza finanziaria è alle spalle. L’euro è solido. Le previsioni di crescita per l’Italia, la Spagna, persino la Grecia, sono favorevoli. Lo spread, da noi, è sceso sotto limiti impensabili qualche mese fa. Resta il problema angosciante della disoccupazione giovanile, al quale l’Europa deve reagire con tutte le sue risorse. Il Premier Renzi lo predica, e trova appoggio a Londra e a Parigi (ma stia attento a non lasciarsi andare al facile abbraccio britannico: gli inglesi hanno il vantaggio del pragmatismo e della resistenza alla burocrazia, ma la loro visione dell’Europa è estremamente riduttiva e non può alla lunga coincidere con la nostra). Le istituzioni europee per parte loro non possono essere sorde allo scontento serpeggiante, per quanto irrazionale, il cui primo risultato sarà di inviare a Strasburgo un numero maggiore di eurofobi. Intendiamoci, nonostante l’accresciuta presenza delle vocianti pattuglie della destra estrema, il Parlamento Europeo continuerà ad avere come protagoniste le grandi famiglie europeiste di socialisti, popolari e liberali, e saranno ancora esse a guidare le sorti del’Unione. Ma i neofascisti renderanno la vita più difficile alle istituzioni comunitarie e cercheranno di rimettere in causa mezzo secolo di integrazione. Questo è il solo punto che hanno in comune: cancellare l’Europa, ritornare alla follia del nazionalismo, al ripugnante antisemitismo, all’odio per i diversi. Per il resto, lasciati a sé stessi non tarderanno a entrare in conflitto tra di loro, un conflitto di tutti contro tutti, perché se un senso ha, per esempio, il nazionalismo del Fronte nazionale, è l’ostilità verso la Germania e non è che i neonazisti tedeschi siano proprio filofrancesi. È facile prevedere che senza un’Europa forte scivoleremmo rapidamente nelle follie fratricide del passato.
Di fronte a questo rischio, Governi, forze politiche liberali e Autorità Europee devono reagire riprendendo il cammino interrottosi nel 2008. Forse non è il momento di grandi costruzioni astratte come la Costituzione, o di pensare concretamente agli Stati Uniti d’Europa. È invece il momento di ritrovare il contatto diretto con i cittadini, far sentire i vantaggi concreti dell’appartenenza europea. Il programma di scambi universitari “Erasmus” è uno dei più grandi, belli e di successo, e ha contribuito a far amare l’Europa a molte generazioni di giovani. Ora occorre un nuovo, grande “Erasmus” che abbracci i campi del lavoro, delle infrastrutture, della ricerca, dei diritti civili, per fare dell’Unione il centro motore di un nuovo slancio che porti l’Europa del futuro al posto che le spetta per la sua magnifica storia e per la qualità dei suoi popoli.
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