Mario Mauro (PI): incoraggiare il nuovo progetto dei Popolari

* Chi poteva aspettarselo che Mario Mauro, fondatore dei Popolari per l’Italia, rimanesse fuori. Mentre Maurizio Lupi, anche lui di Cl come Mauro, era capolista. Un benservito a un ex compagno di partito, oltre che a uno scomodo rivale, in termini di voti si intende, che poi in politica sono i soli che contano? Al minimo dubbio – si dice – non ci sono dubbi. E così è stato fino a quando, nel pomeriggio di ieri, lo stesso Lupi ha dichiarato all’Adnkronos che “con Mario Mauro non c’è alcuna divisione. Lo dimostra anche il fatto che l’area popolare ha suoi candidati nelle liste per le europee. Lui stesso ha assunto il coordinamento di questo progetto, preferendo un compito di questo tipo ad una candidatura”.

Mario Mauro, perché il più europeista di tutti è rimasto fuori?
Andiamo con ordine. Ci sono le elezioni europee e saranno un referendum sull’Europa e sul progetto di integrazione europea. Negli ultimi 15 anni l’opinione pubblica ha ampiamente sottovalutato la rilevanza di questo processo, facendosi fortemente condizionare da un orientamento mediatico che troppo spesso sottolinea solo ciò che avviene sotto gli occhi di casa nostra. Col risultato di non capire come quello che sta accadendo in Ucraina potrebbe cambiare la nostra vita per sempre.

Senatore, non può partire da 15 anni fa.
Mi lasci parlare. I meccanismi farraginosi dell’Unione hanno prestato il destro allo scaricabarile degli stati membri. Accusano l’Europa, ma sono essi stessi ad averne causato le contraddizioni, insistendo a non cedere la sovranità necessaria per promuovere ciò che veramente serve: la politica estera, la politica di difesa, e quella a sostegno dell’unione monetaria.

Allora chi c’è in campo in questo referendum?
Da un lato coloro che intravedono la possibilità di fare un grande bottino elettorale. Sono gli euroscettici. Se ci si pensa bene, non hanno grandi idee, che per di più sono formulate in modo dozzinale, comprese le critiche all’euro. Ma il vero problema non sono loro.

E chi se no?
Quelli che si dicono euroconvinti. I quali si stanno comportando in realtà da eurocretini. Perché se tu dici di credere all’Europa unita ma non ci credi fino in fondo, poni tu stesso in essere le contraddizioni che faranno implodere il sistema. Se nel progetto europeo c’è un principio che mira a moltiplicare il benessere della gente basandosi sulla creazione del mercato unico, porre continuamente paletti a destra e a manca ha il solo esito di non far funzionare le cose come dovrebbero.

Ci faccia un altro esempio.
L’Ue ha avuto la forza di abolire le frontiere e le dogane al proprio interno ma, cosa strana, ritiene che le frontiere all’esterno dell’Unione debbano essere ancora responsabilità degli stati nazionali. Questo fa sì che il flusso migratorio che proviene dal sud del mondo si riversi non sulle spalle robuste di 28 paesi, ma sulle spalle fragili di alcuni singoli stati.

Ma qual è il riflesso degli euroscettici e degli euroconvinti nella politica italiana?
Intanto Renzi è riuscito a compiere un’operazione di chiarezza, collocando in modo netto il Pd nella famiglia dei socialisti europei. Una cosa che la dirigenza postcomunista dei D’Alema, dei Veltroni e dei Bersani non è mai riuscita a fare, continuando a vivere nell’equivoco del cattocomunismo italiano. In questo modo l’operazione di Renzi incontra la trasformazione dei socialisti europei, che da dopo l’ingresso dei paesi dell’Est si sono orientati in chiave europeista.

Non ha proprio nulla da rimproverare ai socialisti?
Il modo che hanno di intendere l’Europa: più incline all’omologazione che all’integrazione. Un errore dal quale i popolari sono geneticamente immuni. A loro spetta di preservare e difendere tre principi fondamentali della vita dell’Unione: l’unità nella diversità, esaltando le identità nazionali e delle minoranze come fattore di integrazione. Poi la solidarietà europea e − terzo − l’economia sociale di mercato, vero cardine del meccanismo di compensazione europeo.

Cos’è la “solidarietà europea” scusi?
L’opposto del modo improvvido con cui si è risposto ai bisogni della Grecia. Ma mi lasci dire dei popolari per favore.

Prego.
Dentro la famiglia popolare oggi c’è un’ambiguità per quello che riguarda il campo italiano ed è l’atteggiamento ondivago di Forza Italia, che alterna momenti di ripensamento europeistico a momenti in cui vorrebbe anch’essa andare fuori dall’euro o comunque sperimentare strade di vecchia sovranità nazionale.

Questione di voti, no?
Berlusconi ha cercato a un certo punto di rincorrere Grillo sul terreno del populismo per contenere la sua emorragia di voti. Questo si è manifestato alle politiche, ma tornerà a manifestarsi nella campagna elettorale europea di Berlusconi che sarà fortemente eurocritica. Da parte mia, ho lavorato perché si superassero le diffidenze di tanti piccoli partiti che si ispirano al Ppe e si costruisse in Italia qualcosa di più grande.

E qui arriviamo alle liste.
Il risultato è una lista bicefala, Udc-Ncd, dove parteciperanno con i loro candidati anche i Popolari per l’Italia. Questa lista non è quella che io volevo: ciò che io volevo era un nuovo progetto, con una nuova lista, per un nuovo partito. Penso però che in questo momento ci voglia il buon senso di incoraggiare questo tentativo, favorendo la presenza a Bruxelles di giovani qualificati, capaci di un rinnovato spirito europeista.

Secondo lei i 5 capolista − Lupi, Lorenzin, Cancian, Cesa e La Via − hanno questa visione?
I grandi progetti politici si reggono sempre sul contributo e sulla generosità delle persone. La cosa più importante è misurarsi col desiderio di ciascuno dei candidati − e quindi non mi riferisco solo ai capilista − di voler essere realmente presenti a Strasburgo e di impegnarsi.

Quindi lei ha fatto un passo indietro.
Sono senatore della Repubblica, ho avuto l’onore di servire il mio paese nel governo Letta (come ministro della Difesa, ndr) e non c’è giorno che io non pensi a come facilitare il processo di integrazione europea. Martedì mattina partirò per l’Ucraina, dove terrò una serie di incontri con lo scopo di riaprire il dialogo tra la parte russofona e i militanti del partito di Yulia Tymoshenko.

Secondo il Corriere lei sarebbe rimasto fuori per non spaccare i Popolari per l’Italia, a motivo degli attriti che dividono Dellai e Oliviero da Angelino Alfano.
Queste ricostruzioni sono false, il problema vero è di decisione politica. Di che cosa ha bisogno il sistema politico italiano? Di quello che chiamiamo il Ppe in Italia. Per averlo bisogna unire, non dividere. È questa l’unica ricetta. Non dimentichiamoci che l’unica Italia che abbia mai funzionato è quella di matrice popolare. Lo stesso vale per l’Europa.

Dunque quelle che lei chiama liste bicefale sono un tentativo in questa direzione.
Sì. Un tentativo che scommette su giovani come Simone Venturini, Matteo Forte, Pietro Sbaraini. Tutti molto preparati.

Renzi e Berlusconi hanno stetto un patto per le riforme, ma su Berlusconi ora incombe il fantasma di Grillo. E Forza Italia potrebbe non essere più il secondo partito italiano. 
Non so quanto interessino davvero le riforme a chi ha fatto quel patto. Credo che Renzi e Berlusconi volessero in realtà una nuova legge elettorale, questo sì. L’Italicum serviva ad eliminare Grillo, oggi le circostanze dicono che potrebbe essere Grillo a eliminare gli altri. La domanda è: se Grillo prevalesse su Berlusconi alle europee, avrebbe ancora senso l’Italicum?

Appunto.
Per me non aveva senso neanche prima. Non bisogna mai cedere alla tentazione di usare, restringendoli, gli spazi e gli strumenti della democrazia in favore di una supposta governabilità, dando tanto potere con troppi pochi voti, e mandando a quel paese l’equilibrio tra le forze e i poteri dello stato.

L’Italicum salta?
Lo do per scontato.

Che ne dice di votare Grillo per far saltare l’Italicum?
Un momento, io delle idee di Grillo non ne condivido neanche una. Dico solo che proprio per questo bisognava favorire delle regole del gioco che non tendessero a isolare nessuno, perché una scelta così determina poi una controreazione da parte dei cittadini, che percepiscono quando si sta forzando la democrazia.

Prima ha detto che quanto accade in Ucraina rischia di cambiare le nostre vite. Cosa significa?
In primo luogo, che la luce che ogni tanto qualche politico, a turno, dice di vedere in fondo al tunnel, potrebbe essere quella di una guerra. E se anche così non fosse, ci sarebbe da temere una logica del conflitto subordinata al ritorno dei nazionalismi. In secondo luogo, l’incapacità di questa Europa di concepirsi insieme. Stare insieme non basta più.

* [NdR – L’intervista a firma di Federico Ferraù è tratta da ilsussidiario.net]

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