Climate change: rischio fame, povertà e migrazioni
Non solo scioglimento dei ghiacciai, tempeste e inondazioni: i cambiamenti climatici provocati dall’uomo e previsti per i prossimi decenni avranno conseguenze importanti proprio sull’uomo perché potranno provocare riduzioni dei raccolti e diffusione di malattie e quindi povertà, fame, conflitti e migrazioni. Gli effetti negativi del cambiamento del clima non si limiteranno ai Paesi poveri e finiranno per provocare esodi di massa: a rivelarlo l’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) dell’Onu, che ha da poco pubblicato i dati sull’impatto dei mutamenti climatici sulla salute dei sistemi naturali e umani, sulla loro vulnerabilità e sulla loro capacità di adattamento. Insieme a quello dell’IPCC, che conferma quelli sempre più frequenti della comunità scientifica e delle associazioni ambientaliste, l’allarme su fame-povertà-migrazioni dovute ai cambiamenti climatici è stato lanciato anche dal Presidente della Banca Mondiale Jim Yong Kim. E ad esso sono stati dedicati i lavori del workshop “I cambiamenti climatici cambiano anche la vita?” organizzato a Milano dalla Ong Fondazione Avsi Onlus e dalla Fondazione Eni Enrico Mattei con il patrocinio della Commissione Europea: due testimoni autorevoli delle conseguenze sociali del climate change, la prima perché impegnata con oltre 100 progetti di cooperazione allo sviluppo in 37 paesi del mondo di Africa, America Latina e Caraibi, Est Europa, Medio Oriente e Asia, e la seconda perché attiva con la sua rete di 70 centri, per il 90 per cento all’estero, in programmi di ricerca sullo sviluppo sostenibile.
Mentre se ne annunciano e studiano gli effetti nella prospettiva del decennio, i cambiamenti climatici dovuti all’uomo stanno però già provocando conseguenze sull’uomo stesso proprio nei Paesi ‘inquinatori’, quelli più industrializzati: il rapporto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) pubblicato a marzo parla infatti di 7 milioni di persone sui 56 milioni di morti nel 2012 nel mondo che sono decedute per il solo fatto di essere rimaste esposte all’inquinamento atmosferico. I nuovi dati hanno evidenziato un legame più forte tra esposizione ad inquinamento atmosferico da una parte e malattie cardiovascolari e tumori dall’altra. Tanto da aver portato l’OMS a definire l’inquinamento atmosferico un ‘big killer’ in tutto il mondo.
Il quadro generale è dunque quello di una crescita delle emissioni inquinanti a livello mondiale. Una crescita che continua nonostante la crisi economica, nonostante la diminuzione delle emissioni degli USA per l’impiego di shale gas in sostituzione del carbone per la produzione di energia e nonostante il fatto che l’Europa abbia consolidato un trend di riduzione. L’Europa fa registrare un dato positivo, perché contribuisce alle emissioni globali con l’11 per cento della quota totale, un dato che appare appunto costante. I paesi in via di sviluppo e le economie emergenti contribuiscono invece con oltre il 60 per cento delle emissioni globali: un dato che per giunta è in vertiginosa crescita, visto che nel 2000 il contributo di questi Paesi era pari al 45 per cento. E il Paese che produce più emissioni è la Cina. Dati che coincidono con quelli sui decessi per inquinamento atmosferico, visto che, sempre secondo il Rapporto dell’OMS; sono i Paesi del Sud-Est asiatico e del Pacifico occidentale quelli che hanno avuto il più ampio numero di morti nel 2012, per un totale di 5,9 milioni di decessi legati all’inquinamento atmosferico sul totale mondiale di 7 milioni.
Nonostante le prime politiche di contenimento delle emissioni inquinanti, che anche i Paesi emergenti e inquinatori stanno finalmente prendendo in considerazione se non altro per contenere gli effetti sanitari dello smog come avviene ormai regolarmente in alcune metropoli industriali della Cina, il riscaldamento globale è un fenomeno ormai avviato, difficile da contenere entro il breve termine e capace di estendere i suoi effetti ben oltre i confini degli Stati e dei continenti..Ecco perché le strategie per la riduzione delle emissioni inquinanti e quindi del riscaldamento globale devono tenere conto delle conseguenze a lungo, ma anche a breve termine e su scala globale ma anche locale. Non solo: secondo l’Agenzia Europea dell’Ambiente (EEA), quello che serve è considerare il cambiamento climatico come un fenomeno ormai inevitabile al quale prepararsi con una vera e propria strategia di adattamento, la strategia ‘Adaptation in Europe’. Un pacchetto di interventi che, come affermato dal Commissario europeo per il Clima Connie Hedegaard, per i suoi effetti di prevenzione degli effetti del cambiamento climatico sulle popolazioni, è da considerarsi “una politica per la coesione sociale”. Quello previsto dalla Strategia è uno scenario nel quale la temperatura globale media, già aumentata di quasi un grado, crescerà di più di due gradi ancora portando in Europa non solo migrazioni ma anche riduzione delle superfici boschive, alterazione dei cicli vegetativi e vitali delle specie animali, e malattie tropicali. La Strategia Europea prevede per questo tre tipi di interventi: progetti tecnologici e ingegneristici, approcci basati su natura ed ecosistemi; politiche locali innovative. Interventi che, secondo le finalità della stessa Strategia, possono contribuire alla lotta ai cambiamenti climatici ma anche alla crescita sociale ed economica dell’Europa, offrendo ai Paesi membri una nuova opportunità per uscire dalla crisi.
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