L’Europa in gioco

Circolano in questi giorni sondaggi poco incoraggianti sullo stato d’animo degli europei di fronte all’UE alla vigilia delle elezioni del 25 di maggio. E non è difficile immaginare quante vesti saranno strappate e quanti lugubri allarmi verranno lanciati se essi saranno, com’è prevedibile,  confermati.

Ma cerchiamo di capire qual è la realtà della situazione nei cinque Paesi che più contano per il peso delle rappresentanze che manderanno a Strasburgo.

Cominciamo dall’Inghilterra, che è il caso in certo modo più scontato. Tranne un ridotto nucleo di liberal-democratici e di laburisti moderati, gli inglesi sono da sempre visceralmente  avversi all’integrazione europea. L’hanno combattuta per anni finché, non riuscendo a fermarla, hanno deciso di unirvisi, per ragioni non certo ideali.  Ma l’hanno vissuta con profonde resistenze e riserve, spesso riuscendo a bloccarla. Ai tempi della Thatcher, questa posizione assunse aspetti persino grotteschi. L’avvento di John Mayor e poi di Tony Blair, ambedue disposti a stare al gioco europeo, pareva averla fatta superare ma il ritorno di una maggioranza di conservatori alla Cameron l’ha riproposta quasi eguale. Perché tutto  questo? Perché l’Inghilterra, se da un lato è parte della civiltà e della storia europea, per altro lato è una vera isola, attaccata all’indipendenza assoluta, nostalgica dell’Impero e ancora legata alle sue vestigia, persuasa di avere una relazione speciale con l’America  e di poter svolgere ancora un ruolo significativo nel  mondo. A ciò si aggiunge un senso di superiorità rispetto ai popoli del Continente, tanto latini quanto teutonici. Per un inglese, la Regina, la sterlina, le tradizioni imperiali, non sono simboli vuoti ma parti della sua identità. Perciò Londra è rimasta al di fuori dei più avanzati  progressi dell’integrazione, da Schengen all’Unione Monetaria. Su questi  diffusi sentimenti  gioca il vociante neo-fascismo inglese, che riscuote qualche successo sopratutto a spese dei liberal-democratici. Ma sono successi da non sopravvalutare. Gli inglesi in larga maggioranza restano fedeli ai due maggiori partiti e il sistema elettorale permette di tenere fuori dai Comuni la destra estrema. In cambio, la questione dell’Inghilterra in Europa sarà risolta con il referendum previsto entro il 2017. È presto per dire come andrà, ma una cosa va detta  chiaramente: anche se la partecipazione della Gran Bretagna aggiunge all’UE una dimensione importante, se ne uscisse non sarebbe una tragedia: anzi, al di là dello sconcerto iniziale, su cui giocherebbero le forze eurofobe anche da noi, sarebbe a lungo termine un vantaggio per chi crede veramente in un’Europa più unita e coesa.

Tutt’altro è il discorso per i due Paesi cardine dell’Europa, sulla cui riconciliazione storica si fonda  l’integrazione: Germania e Francia. Quanto alla prima, i successi dei neo-nazi eurofobi sono rimasti limitati e il loro partito non è neppure entrato in Parlamento. Il Governo è solidamente nelle mani di una grande coalizione composta da due partiti – e guidata da esponenti – che sono europeisti per convinzione e per interesse. Non vedo rischi da quella parte.

In Francia, il preteso successo del Fronte Nazionale alle amministrarive ha fatto trascurare che la stragrande maggioranza ha votato per gollisti e socialisti. Sulle convinzioni europee di questi ultimi non sono leciti dubbi. Quanto ai gollisti, qualcuno potrebbe  ricordare che fu De Gaulle a determinare il fallimento di iniziative europee cruciali come la Comunità di Difesa e poi a opporsi a ogni deroga alla sovranità illimitata. Ma i suoi successori, da Giscard a Chirac e a Sarkozy, sono stati tutti europei convinti. I sondaggi mostrano, sì, che l’UE ha in questo momento in Francia un’immagine prevalentemente negativa (49% contro 46%) e che molti pensano che l’euro abbia tolto elasticità all’economia. Ma dicono anche che  più del 60% si dice contrario all’uscita dall’euro e ben di più all’uscita dall’Unione. Consiglio i nostri politici di andarsi a leggere un’intervista data a Le Monde lo scorso lunedì 5 dall’ex-Ministro degli Esteri di Chirac e di Sarkozy, Alain Juppè, ora trionfalmente rieletto sindaco di Bordeaux, uomo della destra più classica. L’intervista è un inno di fedeltà e persino di amore per l’Europa. Ricorda la necessità vitale della moneta comune per evitare la debolezza delle monete nazionali, il loro deprezzamento, la ricorrente speculazione contro di loro; rivendica l’imperativa esigenza per gli europei di darsi una difesa e una politica estera comune e di agire come un blocco economico compatto se vogliono sopravvivere in un mondo di giganti. E alla fine dice una cosa bellissima: dell’Europa “bisogna parlare in termini affettivi”. Non equivochiamo: questa è la  vera destra francese, non quella grottesca e razzista della signora Le Pen. Questa è la garanzia che la Francia, che sia governata dai socialisti o dai gollisti, non tradirà la sua vocazione europea.

Poco c’è da dire sulla Spagna. Mi sembra che il movimento degli indignati, che aveva aspetti anti-Bruxelles, si stia molto ridimensionando da quando l’economia spagnola, dopo l’intervento europeo, ha ripreso a crescere. Ma sulle convinzioni europee di Popolari e Socialisti non vi sono dubbi e ambedue forniranno drappelli consistenti ai grandi gruppi PPE e PSE di Strasburgo.

Veniamo all’Italia. Basandoci sui sondaggi, le forze dichiaratemente eurofobe potrebbero superare il 30%. Quelle dichiaratemente europiste dovrebbero stabilirsi attorno al 35%. In mezzo c’è Forza Italia. Abbiamo detto e scritto molto sulle ambiguità di Berlusconi, sulla sua ridicola guerriglia anti-Merkel, sulla sua colpevole rincorsa ai voti grillini; ma non credo vada catalogato come un vero eurofobo, seriamente intenzionato a farci uscire dall’UE e dall’euro. Dopotutto, è stato un Presidente del Consiglio Europeo molto attivo e impegnato ed ora appoggia per la presidenza della Commissione Juncker, ultraeuropeista e uomo del “rigore” alla tedesca. I parlamentari del PdL a Strasburgo hanno sempre integrato, attraverso il gruppo  del PPE, le forze fedeli all’Europa  e sono certo che altrettanro faranno gli eletti con Forza Italia. Dei deputati italiani, è dunque ragionevole prevedere che due terzi circa andranno a raggiungere i gruppi “europeisti” di PPE e PS.

Questa valutazione prudente non deve naturalmente impedire a PD e Centro di mettercela tutta in queste due settimane che restano prima del 25. La posta in gioco è troppo alta per agire con compiacenza.

E, passato il giorno delle elezioni, quando si spegneranno gli inevitabili allarmi, piagnistei, inni funebri, sarà necessario rendersi conto che comunque qualcosa è cambiato nelle grandi correnti di opinione pubblica e mettersi a lavorare per fare dell’Europa – per noi, per i nostri figli e per i nostri  nipoti – un luogo davvero migliore, più giusto e più forte.

©Futuro Europa®

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