Iran, non più “rogue State”?
La folgorante offensiva jihadista in Irak ci ha insegnato una cosa: gli Stati Uniti, che hanno lasciato il Paese alla fine del 2011, non son pronti a rimetterci piede. “Non invieremo nuovamente delle truppe a combattere in Irak”, ha dichiarato venerdì scorso Barack Obama, ricordando i “sacrifici straordinari” del suo esercito nel Paese dall’intervento americano nel 2003. Ma resisterà alla tentazione?
Per rispondere all’assalto lampo dei combattenti dello Stato Islamico dell’Irak e del Levante (ISIL), che si è appropriato la scorsa settimana di molte parti di territorio nel Nord e nel Centro del Paese, Barack Obama a chiesto tempo per pensare al modo migliore per “sostenere le forze di sicurezza irachene”. “Il fatto che non siano pronte a battersi e a difendere la loro posizione contro dei terroristi, certamente incalliti, ma che non sono in superiorità numerica, dimostra che c’è un problema di stato d’animo, di partecipazione”, ha ammesso Obama, dopo la loro reazione di panico di fronte agli jihadisti. Preso tra due fuochi, il Presidente americano, che ha fatto del disimpegno militare in Medio Oriente la priorità del suo secondo mandato (già mostrato dal suo spettacolare voltafaccia sull’attacco chimico siriano nell’Agosto del 2013), non può lasciar crescere in Irak questa organizzazione, legata ad al Qaeda e che vuole ristabilire il Califfato in questa Regione. Per arrivare a questo, Barack Obama potrebbe appoggiarsi su di un aiuto inatteso. In effetti, è la Repubblica Islamica dell’Iran, grande alleato di Baghdad, che ha risposto favorevolmente all’appello di aiuto internazionale lanciato dal Primo Ministro iracheno Nouri al-Maliki per combattere il “terrorismo” in Irak. “Se vediamo che gli Stati Unti agiscono contro i gruppi terroristi, possiamo pensare a cooperare”, ha dichiarato alla stampa estera il Presidente iraniano “moderato” Hassan Rohani, anche se i due Paesi non hanno relazioni diplomatiche “ufficiali” da ben 35 anni. Un vero colpo di scena in Medio Oriente? Non proprio. Poche settimane dopo gli attentati dell’11 Settembre 2001, la Repubblica Islamica aveva già fornito informazioni preziose agli americani per cacciare i Talebani dall’Afghanistan. Un aiuto che non è servito, avendo George W. Bush deciso nel 2002 di mettere l’Iran tra i Paesi del suo “Asse del male”.
L’anno successivo però, il Presidente americano fa, malgrado lui, un immenso regalo agli iraniani sbarazzandoli del loro peggior nemico, Saddham Hussein. Inoltre, l’intervento americano porta nel 2006 all’elezione di Nouri al-Maliki come Primo Ministro, uno sciita la cui comunità, maggioritaria in Irak (55% della popolazione), è stata particolarmente discriminata durante il regno dell’ex Rais sunnita iracheno. Vicino a Teheran, dove ha passato numerosi anni di esilio, “l’autoritario” Primo Ministro prende la sua rivincita sui sunniti che marginalizza, e si apre all’Iran. In poco tempo l’Irak diventa il componente principale della politica estera iraniana, perno essenziale dell’”asse sciita” Teheran-Baghdad-Damasco-Beirut, e legame essenziale tra i Guardiani della Rivoluzione iraniana, Bachar al-Assad e l’Hezbollah libanese, che Teheran arma e finanzia. Oltre all’innegabile guadagno sul piano geopolitico, l’Irak ha per l’Iran un’importanza capitale sul piano religioso. Culla dello sciismo (il Paese è stato teatro delle battaglie fondatrici della religione sciita), l’Irak custodisce le tombe dei suoi più grandi santi. Così, quando Abu Mohammed al-Adnani, portavoce dell’ISIL, chiama i suoi combattenti a diffondere il “terrore” nel cuore degli sciiti e a marciare sulle città di Najaf, tomba dell’Imam Ali (fondatore del sciismo), e di Kerbala, tomba del figlio l’Imam Hossein, lo jihadista lancia una vera dichiarazione di guerra agli ayatollah iraniani.
“Preoccupato” per l’avanzata jihadista alle porte di Baghdad, il Presidente iraniano Rohani ha tuttavia fatto sapere che “l’intervento delle forze iraniane” non era all’ordine del giorno. Difficile in effetti immaginare da parte della Repubblica Islamica che entri direttamente in un conflitto che potrebbe esporla alla feroce risposta di jihadisti armati fino ai denti grazie a fondi provenienti dalle monarchie sunnite del Golfo, acerrime rivali della Repubblica Islamica in Medio Oriente. Inoltre, Teheran non ha nessun interesse ad inviare in territorio iracheno dei soldati iraniani che non parlano arabo, quando l’Irak pullula di migliaia di volontari sciiti pronti a prendere le armi, e rispondere così all’appello dell’Ayatollah Ali al-Sistani, la più alta autorità religiosa sciita del Paese. Il Presidente Rohani ha precisato che l’Iran era pronto ad “aiutare” le autorità irachene, vedi ad inviare dei consiglieri militari per armare e addestrare i loro omologhi iracheni. Ora, sembrerebbe che questo sia già avvenuto. Il quotidiano britannico The Guardian, afferma che il generale Suleimani, il comandante della potente forza al-Qods (la divisione dei Guardiani della Rivoluzione iraniana all’estero), si trovava già a Baghdad.
La Brooking Institution, uno dei più prestigiosi think thank americani, aggiunge che l’Iran avrebbe inviato sul posto tre unità di al-Qods per addestrare i battaglioni iracheni. Uno scenario che ricorda la Siria, dove l’Iran ha inviato già nell’estate del 2011 dei consiglieri per insegnare alle forze di Bachar al-Assad l’arte della repressione, prima di chiamare alla fine del 2012 direttamente gli Hezbollah a dar man forte al presidente siriano. Una forza d’intervento nella Regione che non lascia gli americani indifferenti. Lunedì scorso, il Segretario di Stato americano John Kerry ha dichiarato che aveva disposto di parlare con l’Iran della crisi in Irak. Presto indipendenti in campo energetico con la scoperta del gas di scisto, gli Stati Uniti sono chiaramente impegnati nel tentativo di riequilibrare la loro diplomazia in Asia, per agire meglio nella concorrenza con la Cina. A grande discapito dei Paesi del Golfo, la cui fornitura di petrolio all’alleato americano ha garantito finora la loro sicurezza. Il riscaldamento Teheran-Washington non data da oggi. Già nel Marzo del 2013, i due Paesi hanno condotto dei negoziati segreti, che hanno permesso di facilitare, sei mesi più tardi, la conclusione di un accordo ad interim sullo spinoso dossier del nucleare iraniano. Se sussistono ancora dei punti di disaccordo tra l’Iran e il gruppo dei 5+1 (5 membri del Consiglio di Sicurezza e la Germania) per arrivare ad un accordo definitivo entro il prossimo 20 Luglio, il caso iracheno potrebbe accelerare una soluzione negoziata. In effetti, anche se giura il contrario, la Repubblica Islamica ha sempre voluto legare la crisi del nucleare alle altre questioni regionali per facilitare la sua soluzione e rafforzare il suo statuto di potenza in Medio Oriente.
In questo contesto, l’offensiva jihadista in Irak, che mette gli americani spalle al muro, appare come un asso nella manica che gli iraniani vogliono giocarsi al meglio. Secondo il Wall Street Journal, i due migliori nemici, che si sono già sentiti la scorsa settimana per il dossier nucleare, dovrebbero cominciare dei colloqui diretti esclusivamente dedicati all’aiuto che possono portare all’Irak. Intanto Obama, contraddicendosi un po’, è quasi convinto ad inviare dei “consiglieri militari”. Questa storia, già di per sé confusa e nebulosa, sta diventando tragicamente bizzarra. Il passato, ancora una volta, non sembra aver insegnato nulla.
©Futuro Europa®