Riforme, conciliare Costituzione e sistema elettorale
Matteo Renzi, dopo il vistoso successo alle europee, deve operare con spirito di sano discernimento di ciò che risulta più opportuno per il Paese in materia di riordino istituzionale. Il metodo adottato all’interno del Pd, mescolando alla sua maniera savonarolismo e machiavellismo, non si può applicare con la medesima disinvoltura ai rapporti politici e parlamentari. La responsabilità impone un esercizio di astinenza dalle bramosie di rottamazione, oltreché dei gruppi dirigenti di partito, della stessa “macchina costituzionale” della Repubblica. Rinnovare è un orizzonte di sacrificio e di equilibrio, non di pretenziosa radicalità.
Andiamo per ordine. Il confronto a geometria variabile sulle riforme porta allo scoperto i nodi di una proposta che in nome della razionalizzazione della democrazia parlamentare, insieme alla nuova idea di rappresentanza concepita come trionfo del maggioritario, introduce una inaccettabile distorsione dei meccanismi di funzionamento delle istituzioni. Alle obiezioni provenienti da più parti si tende a rispondere in maniera sbrigativa e irrisoria, anche a prezzo di arbitrarie conclusioni. Ciò nondimeno il “fronte del rifiuto”, legato a questioni delicate e dirimenti, si allarga ogni giorno che passa. Le perplessità, invece di diminuire, aumentano: non riguardano le buone intenzioni, quali ad esempio il superamento del bicameralismo perfetto e l’individuazione di criteri idonei a garantire la governabilità, ma le disordinate aspettative di un sessanta per cento dell’elettorato attivo, ovvero la somma puramente aritmetica di Pd e Forza Italia, che mira a conquistare il monopolio della ripartizione dei ruoli di maggioranza e opposizione.
La trasformazione del Senato non implica la sua necessaria riduzione a Camera di nominati. Il caso della Germania, ove si riscontra la presenza al Bundesrat di soli delegati, fa subito riflettere sulla sostanziale disomogeneità dei modelli costituzionali in vigore a Berlino e Roma. Basti considerare che i rappresentanti dei Länder sono espressione dei rispettivi governi, mentre in Italia i futuri senatori, in ossequio a un principio di formale rispetto del pluralismo, lo sarebbero delle assemblee consiliari regionali. Chi siede al Bundesrat non esercita, appunto, la generica “rappresentanza dei territori” come previsto un domani per i nostri Senatori. Accadrà pertanto che un consigliere regionale o un sindaco, appartenenti a forze politiche di opposizione in sede locale, anche in contrasto con i Presidenti delle loro Regioni avranno tutto il diritto di sentirsi liberi titolari (pro quota) della rappresentanza della loro realtà territoriale. In questo caso, però, vorrebbe il buon senso che la loro selezione fosse affidata alla diretta volontà popolare e determinata su base proporzionale: la legittimazione ne guadagnerebbe anche per effetto di una reale copertura del pluralismo sociale e politico. Perché mai non dovrebbe essere così, avendo assegnato al Senato compiti e funzioni importanti al di fuori, tuttavia, del circuito di fiducia tra il Governo e la sua maggioranza parlamentare? In Gran Bretagna la Camera dei Lord, composta da oltre settecento membri, ha in sé un’indubbia forza morale e istituzionale derivante dalla sua rappresentanza rigorosamente proporzionale, nonostante il fatto che per antica tradizione mantenga un impianto che esclude l’investitura popolare diretta.
Le riforme implicano l’esame di rischi potenziali e indiretti. Non bisogna, a riguardo, sottovalutare la deriva in senso iper-maggioritario. L’allarme è stato già lanciato, benché si faccia a gara, tra quanti maneggiano ringhiosi il Patto del Nazareno, a scansare l’accusa di vocazione al plebiscitarismo. Ora, se ci fosse davvero premura di evitare il pericolo della dittatura di una maggioranza, ottenuta per di più con l’ausilio di esagerate regole premianti, si avrebbe un assetto molto più equilibrato della rappresentanza e dei poteri grazie proprio alla saggia combinazione di maggioritario (alla Camera) e proporzionale (al Senato). Nessuno dentro questo schema potrebbe fare man bassa di Governo, Presidenza della Repubblica e altri organi costituzionali con appena il quaranta per cento dell’elettorato, per altro equivalente, in forza dell’alto astensionismo, a un modesto venti o trenta per cento della società.
Nel dialogo risiede la possibilità di trovare insieme soluzioni compatibili sia con la velocità delle decisioni, sia con la complessità del consenso democratico. Toccare i capisaldi dell’ordinamento costituzionale dello Stato afferisce a una funzione che esige massima cura e responsabilità. In ogni caso la salvaguardia dei valori di libertà e democrazia trascende l’effimera disputa sulla maggiore o minore aderenza allo spirito del tempo, sebbene circonfuso di impellenti ambizioni innovative. Si può cambiare senza compromettere le conquiste del costituzionalismo liberale, irrorate in Italia, dopo la tragedia di una guerra e la Liberazione dal fascismo, da culture profondamente ispirate alla visione di una democrazia aperta, inclusiva, partecipativa, non viziata dal pregiudizio antipopolare. E da qualche parte, oggi sotto altre forme, si annida sempre la volontà di rimettere sul trono le prerogative e le esigenze delle élite a discapito degli autentici interessi dei ceti popolari.
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