Egitto, la Rabbia dei Fratelli Musulmani
Il Fratelli Musulmani egiziani hanno decretato la “giornata della Rabbia”, ad un anno dalla destituzione del Presidente islamista Mohammed Morsi per mano di colui che è diventato il suo successore, Abdel Fatah Al Sissi.
La “giornata delle Rabbia” è quella che hanno voluto celebrare il 3 Luglio in tutto l’Egitto i Fratelli Musulmani, per commemorare la destituzione del Presidente Islamista Mohammed Morsi. Un impressionante dispositivo di sicurezza è stato azionato in tutto il Paese, e soprattutto nella capitale, teatro di sei attentati terroristici lo scorso Giugno, tutti avvenuti tutti nell’arco di una settimana. In effetti, dalla caduta di Morsi, la minaccia terrorista è cresciuta parecchio nel Paese del Nilo, dove diversi gruppi jihadisti hanno trovato rifugio nel deserto egiziano del Sinai. In un anno, 500 membri delle forze dell’ordine sono morti in diversi attentati. Per arginare questa minaccia, l’opzione della repressione è stata quella scelta da Abdel Fatah Al Sissi, regista della caduta del Presidente islamista e ormai suo successore legittimo dopo la schiacciante vittoria alle elezioni presidenziali del Maggio scorso, che gli ha visto assegnare, secondo la Commissione elettorale indipendente, il 97% dei voti. L’ex maresciallo dell’Esercito Al Sissi ha preso i pieni poteri nel Paese che guida insieme all’esercito, facendo temere a molti osservatori un ritorno al Regime di Hosni Mubarak, contro il quale gli egiziani si erano ribellati nel Gennaio del 2011.
Nella sua campagna elettorale Al Sissi aveva già preannunciato che “l’Egitto non sarebbe stato pronto per la vera Democrazia che tra 25 anni, se non di più”, una dichiarazione che oggi assume pienamente la natura autoritaria dello stile Al Sissi. La popolazione egiziana però non ha dovuto aspettare le elezioni presidenziali per fare tale scoperta. Al Sissi era già a capo delle autorità di transizione e queste hanno intrapreso una distruzione programmata e metodica della Confraternita dei Fratelli Musulmani. Dalla sua nascita nel 1920, ha sempre rappresentato una minaccia importante per il potere militare al comando del Paese, soprattutto per la sua forte radicazione nel tessuto sociale egiziano. Oltre alla repressione con le armi durante le numerose manifestazioni di simpatizzanti islamisti, il potere egiziano ha usato l’arma giuridica per annichilire il movimento. Lo scorso Settembre, i beni mobili e immobili dei suoi membri sono stati congelati, e in Dicembre una riunione ministeriale ha interinato la sorte dei Fratelli Musulmani, che sono passati nella lista dei “gruppi terroristi”. Così, la legge antiterrorista del 1998 è potuta essere applicata alla Confraternita, una legge che è stata definita “estremamente severa” da diverse ONG, tra le quali Amnesty International, ma da una portata assolutamente legale alla repressione da parte della polizia, dei militari e della giustizia. Così il mese scorso, la condanna di 183 persone alla pena capitale è stata confermata in secondo grado dal tribunale di El Minya, una cittadina del Sud del Paese. Tra di loro si trova la Guida spirituale della Confraternita, Mohammed Badie, vicino all’ex Presidente egiziano.
Pochi giorni fa, il tribunale penale del Cairo ha condannato Abdullah Morsi, figlio di Mohammed Morsi, ad un anno di prigione per possesso e uso di droga. Suo padre non è messo meglio dei suoi confratelli, il suo processo è stato rimandato ad Ottobre e rischia la pena capitale per incitamento all’omicidio e collaborazionismo in seno ad una organizzazione terrorista. Il carcere a vita, se non viene invalidato da altri processi che lo trasformano in pena capitale, fa capire quale sia la strategia di Al Sissi. L’eliminazione fisica di chi ha osato interferire al suo progetto di dominio. E il mantenere al carcere a vita di coloro che possono un domani servire da interlocutore per un accordo politico da negoziare.
Abdel Al Sissi ha bollato la Confraternita dei Fratelli Musulmani come organizzazione terrorista. La sua decapitazione e il suo smantellamento appaiono nell’ordine naturale del suo modo di fare basato sullo sradicamento come politica suprema. Ma la domanda che si pone ora è la seguente: ammesso il voler istaurare una dittatura militare alla luce del sole, ammesso il voler tagliare le teste più importanti della Confraternita per permettere ad altri più giovani, più concilianti, di emergere, il nuovo uomo forte del Cairo avrà bisogno di buone carte da giocare per avviare il processo di allentamento della tensione richiesto dall’Amministrazione americana e dalle Potenze europee. Ce la farà? Il comportamento e le scelte di Al Sissi dipenderanno dal corso degli eventi in Egitto. Se riuscirà a creare condizioni di sicurezza che permettano anche il rilancio dell’economia (si pensi soprattutto al turismo), gli egiziani gli perdoneranno gli eccessi che gli vengono attribuiti dalla stampa internazionale. Processi sommari, violazioni dei Diritti Umani. In caso contrario, un diritto d’inventario “all’egiziana” è d’obbligo, con la sua serie di scossoni, la tensione, i disordini diretti verso l’istituzione militare che di fatto detiene sempre il potere. Nonostante tutto, un anno dopo aver deposto il Presidente Mohammed Morsi, Al Sissi sembra godere di una stupefacente benevolenza internazionale. L’Amministrazione americana gli ha un po’ tenuto il broncio all’inizio del suo colpo di forza, minacciando di congelare il prezioso aiuto americano. Al Sissi si era “offeso” e aveva per tutta risposta ricucito l’amicizia con Putin. L’Unione Europea si è a sua volta indignata durante una riunione straordinaria a Bruxelles, prima di perdere la voce e diventare afona sul dossier Egitto. Al Sissi ha poi avuto la fortuna di essere preso in “simpatia” dall’Arabia Saudita, che ha visto nel suo arrivo al Governo un modo di rimandare la Confraternita nella clandestinità che non avrebbe mai dovuto lasciare.
Sul piano internazionale, il Presidente egiziano ha appena ottenuto un piccolo grande risultato diplomatico. Con l’aiuto dell’Algeria di Bouteflika, ha ritrovato il suo posto in seno all’Unione Africana dalla quale l’Egitto era stato escluso per via del colpo di Stato militare. Segno dei tempi e dei caratteri immutabili, mentre il Summit di Malabo si svolgeva con il titolo “l’agricoltura e la sicurezza alimentare in Africa”, Al Sissi ha centrato il suo intervento sulla guerra contro il terrorismo e la lotta agli estremismi religiosi. La conclusione dei lavori, svolti a porte chiuse, ha decretato ancora una volta la vittoria dell’impunità di molti leader africani.
In Egitto l’ottimismo oggi non prevale. Più del 40% degli egiziani vive al di sotto della soglia di povertà e il deficit del Paese non fa che crescere, cosa che ha spinto Al Sissi a ventilare l’ipotesi di una “diminuzione delle sovvenzioni statali”. Queste si applicano per prodotti di prima necessità come pane e benzina. Ma nel 2011, come nel 2013, oltre “alla giustizia sociale e alla libertà”, Piazza Tahrir chiedeva “il pane”. Le autorità di transizione non hanno concretizzato la richieste della strada, su Al Sissi ricadono le ultime speranze del popolo che non esiterà a ricorrere alla rivoluzione una volta di più.
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