Sottosegretario Rossi (PI): Italia, non esclusi pericoli da Al-Baghdadi

“Il califfato islamico potrebbe finanziare attività terroristiche sul continente europeo e, quindi, anche in Italia”. Il Sottosegretario di Stato alla Difesa Domenico Rossi allerta gli 007 italiani affinché siano “vigili ed efficienti”, nel caso in cui l’Italia diventasse un obiettivo sensibile. La nuova entità politica che si sta formando in Iraq sfrutta il pretesto religioso per agitare venti di guerra in un’area, quella Mediorientale, già scossa da conflitti e violenze. Per l’Europa, Al-Baghdadi e il suo “autoproclamato califfato islamico” possono diventare un pericolo? “Non mi sento di escluderlo”. L’onorevole Rossi (Popolari per l’Italia)  – Generale di corpo d’armata dell’Esercito italiano e già Sottocapo di Stato Maggiore dell’Esercito – spiega a Futuro Europa quali scenari politici e militari si stanno delineando nell’ex terra del rais Saddam Hussein.

Sottosegretario Rossi, in Iraq lo scenario politico è sempre più confuso. Il califfato di Al-Baghdadi, che inneggia alla conquista di “Roma e del mondo intero”, può rappresentare un pericolo concreto per l’Occidente?

“L’idea della ‘presa di Roma’ è evidentemente un’iperbole, ma un fondo di verità lo nasconde. In altre parole ritengo non verosimile l’espansione del “califfato islamico” in Europa, ma non è da escludere che questa nuova entità – che sembra aver conseguito in pochi mesi un risultato maggiore di al Qaeda, arrivando a mettere in discussione l’autorità di Damasco e Baghdad su una parte dei loro territori – una volta consolidata possa  finanziare attività terroristiche sul continente europeo e, quindi anche in Italia (sul modello delle stragi di Madrid e Londra negli anni Duemila)”.

Come è stato possibile essere giunti ad una situazione del genere dopo la fine di Saddam Hussein?

“Anzitutto l’errore maggiore è stato compiuto quando, abbattuto il governo di Saddam Hussein, inizialmente venne di fatto smantellato l’apparato amministrativo e militare del regime baathista, ponendo le basi perché più di un milione di persone subissero il richiamo della lotta armata al nuovo Stato iracheno. Con il surge del generale Petraeus era stata momentaneamente invertita la rotta, ma il ritiro definitivo dell’esercito americano prima che si completasse un effettivo radicamento democratico ha nuovamente svelato tutte le criticità politiche dell’Iraq. A ciò si aggiunge che Il governo Al Maliki, non ha impostato una politica di integrazione tra le comunità (favorendo di fatto gli sciiti ai danni dei sunniti). L’Iraq è oggi in una situazione uguale – se non peggiore – dell’anno zero del 2003”.

Quali soluzioni sono più urgenti a livello politico? Gli Stati Uniti dovrebbero collaborare con Iran e Russia per arginare la questione irachena?

“I rapporti degli Stati Uniti con Russia e Iran sulla questione irachena sembrano legati allo scioglimento di altri nodi internazionali. Con Mosca dipende da come si svilupperà la crisi in Ucraina, con l’Iran dai prossimi passi compiuti da Teheran sulla questione nucleare. Occorre sottolineare che a differenza che sugli altri dossier internazionali, Stati Uniti, Russia e Iran hanno interessi convergenti sulla questione siriano-irachena. Se Washington sembra interessata ad un ordine generale in Medio Oriente a tutela dei propri interessi, Mosca appare volere salvare il regime alleato di Assad (ha una parte della sua flotta ancorata nel porto siriano di Tortous); Teheran è apparentemente volta a preservare il regime “amico” di Baghdad, che grazie all’unità “sciita” per la prima volta esercita una grande influenza sul Paese confinante”.

Iran e Russia, però, non possono prescindere dall’aiuto militare statunitense.

“Gli Stati Uniti rischiano di trovarsi in una condizione di debolezza, in quanto per allontanare lo spettro dell’affermazione di uno Stato islamista nel cuore del Medio Oriente – che costituisce storicamente un’area core per gli interessi vitali americani – potrebbero essere costretti a fare concessioni a Russia e Iran. D’altra parte, tuttavia, Mosca e Teheran subirebbero un duro contraccolpo dal volgersi della situazione a favore dell’Isis e, di conseguenza, potrebbero sostenere un’azione americana in Medio Oriente, non avendo le forze, né la legittimità per compierne una in via autonoma”.

“Conquisteremo anche Roma”, il califfo autoproclamato dello “Stato islamico”, Abu bakr al-Baghdadi, ha minacciato anche l’Italia. Il nostro Paese che ruolo ha in queste vicende politiche internazionali?

“Non mi sento di escludere che, laddove effettivamente venisse dato vita ad un califfato, l’Italia possa diventare un obiettivo sensibile in un’escalation di violenza, essendo stato il terzo Paese contributore della missione in “Iraq freedom”. Può infatti sussistere la possibilità che il radicalismo islamico, che già ha colpito i nostri uomini duramente con la strage di Nassiriya, potrebbe scegliere di ritornare ad attaccare obiettivi italiani, rivolgendo stavolta l’attenzione all’interno dei nostri confini nazionali, utilizzando come cellule operative alcuni segmenti minoritari e particolarmente emarginati dell’immigrazione clandestina. Ne deriva l’esigenza di mantenere vigili ed efficienti i nostri apparati di intelligence e di Difesa”.

Per concludere: a Gaza la tregua non regge e riprendono i bombardamenti. Nel conflitto tra Israele e Hamas, quanto la religione nasconde interessi prettamente politici?

“Mi sembra lo confermino i fatti. Negli anni Novanta e Duemila la politicizzazione delle identità religiose ha rimpiazzato le ideologie del Novecento nel ruolo di fonte di legittimazione politica. La lotta per il potere, che prima era avvolta dall’aura dello scontro tra il modello liberal-capitalistico e quello collettivista, ora è ammantata dalle appartenenze religiose. Ma la fede c’entra poco. Non è un caso, d’altronde, che un movimento come Hamas, che ha trasformato la propria identità religiosa nel suo principale aggregatore politico, sia nato nel 1987 e abbia cominciato ad affermarsi politicamente alla fine degli anni Novanta. Allo stesso modo i partiti ortodossi in Israele hanno conosciuto uno sviluppo precedente dagli anni Duemila, mentre prima il nazionalismo israeliano era soprattutto laico. Il vero problema è che in conflitto, qualsiasi sia la causa, chi paga sono prevalentemente gli innocenti o i più deboli”.

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