Il seminarista (Film, 2013)
Il seminarista è un film d’autore in senso pieno, non solo perché il regista è autore di soggetto, sceneggiatura (con la collaborazione di Ugo Chiti) e montaggio, ma soprattutto perché la materia narrata è intensa, realistica, filologicamente corretta e storicamente ben documentata. Romanzo di formazione – ché di questo si tratta – di un prete mancato, racconto commosso di un’infanzia e di un’adolescenza passata in seminario, insieme a un gruppo di amici che hanno condiviso la sua vita.
Guido, professore di lettere classiche in un liceo di Prato, un bel giorno si sofferma a guardare la sua infanzia da una fessura che si affaccia sul vecchio cortile del seminario. Apprezzabile l’escamotage tecnico della fotografia a colori che diventa gelido bianco e nero non appena si racconta il passato, come è ancora più interessante la dissolvenza stemperata che riporta il protagonista ai suoi giorni di bambino. Bravo Andrea Locatelli che realizza una fotografia esente da pecche, dai toni cangianti, a tratti caldi e avvolgenti, ma in certe situazioni freddi e cupi. Il film procede come un lungo flashback bergmaniano nel quale Guido ritorna bambino di dieci anni per mano a sua madre che l’accompagna in seminario mentre in sottofondo scorrono le note di Ciao ciao bambina.
Il regista descrive la vita in seminario con dovizia di particolari, l’amicizia cameratesca tra i ragazzi, gli sfottò al pugliese (chiamato marocchino per il colore scuro della pelle), il più povero di tutti, la bontà di Sandro, destinato a morire, la ribellione di Guido (soprannominato ritrosa). I bambini sono molto bravi, così come lo sono gli attori adolescenti e adulti – per niente noti ma ben calati nella parte – recitano in un fiorentino spontaneo, comprensibile e privo di eccessi. Vediamo la ricorrenza del due novembre, i racconti dei morti, la mensa dove se non si mangia si viene puniti, i castighi imposti per inezie, i preti retrogradi e i sacerdoti progressisti, persino gli insegnanti pedofili. Il regista sta dalla parte di Don Milani e della Chiesa militante che si occupa dei poveri, mentre accusa il clero oscurantista che demonizza persino l’amore.
La ricostruzione d’epoca anni Sessanta è straordinaria: auto, biciclette, moto, abbigliamento, paste, figurine dei calciatori (Corso, Mazzola, Suarez); il tono è malinconico, persino triste, toccante quando muore uno dei ragazzi e nelle sequenze che vedono il più povero espulso ingiustamente dalla scuola. Proustiano nella ricerca del tempo perduto, molto Giovane Holden in tante sequenze, con una spruzzatina de Il posto delle fragole, che ci sta sempre bene. Un film che parla di solidarietà tra ragazzi, di scoperta dell’amore, di cinema che cambia con il passare degli anni, di una Chiesa che si macchia di assurdi peccati ma poi li nasconde, di una speranza riposta in chi mette l’amore al primo posto. Notevole la scena della proiezione in seminario de La magnifica preda (1954) di Otto Preminger, con il preside che cerca in ogni modo di nascondere le grazie procaci di Marilyn Monroe. La dolce vita è un film immorale e il cinema un pericolo, per la Chiesa oscurantista, al punto che i ragazzi sono obbligati a non guardare l’ingresso del Politeama quando in cartellone c’è Non perdiamo la testa con Ugo Tognazzi. Il regista racconta la formazione umana di Guido, che fuma e s’innamora come tutti gli adolescenti, fino a quando – deluso dai superiori e sconcertato per la morte dell’amico – si abbandona al sentimento terreno per Giulia e decide di uscire dal seminario. In definitiva il regista lancia un messaggio religioso molto coraggioso: “Ci sono modi diversi e opposti d’intendere il Vangelo. Bisogna pensare con la propria testa e non farsi mettere il lucchetto ai propri pensieri”, come dice il bibliotecario ribelle vicino alle idee di Don Milani. Una volta tanto i soldi del credito d’imposta, la Toscana Film Commission, il Comune di Prato e la Regione Toscana finanziano vero cinema e non puttanate para televisive. Non sappiamo come sia accaduto il miracolo, ma in ogni caso registi come Gabriele Cecconi fanno bene al cinema italiano. La speranza è che continuino a lavorare.
Gabriele Cecconi è laureato in Storia del Cinema, docente di Linguaggio cinematografico nel Corso di Regia alla Scuola di cinema Anna Magnani, direttore artistico del Film Festival Mauro Bolognini e presidente dell’Associazione culturale Alfafilm. Autore dal 1985 di cortometraggi e mediometraggi a soggetto su avvenimenti storico-religiosi, spesso premiati. Il seminarista è il suo confortante debutto nel mondo del lungometraggio.
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Regia: Gabriele Cecconi. Soggetto e Sceneggiatura: Gabriele Cecconi. Montaggio: Gabriele Cecconi (collaboratori: Sirio Zabberoni, Stefano Cangioli). Collaboratore alla Sceneggiatura: Ugo Chiti. Fotografia: Andrea Locatelli. Scenografie: Luciana Tacconi. Costumi: Veronica Spadaro. Aiuto Regista: Mike Ricci. Produzione: Dream Film, Alfa Film. Contributi: Regione Toscana, Toscana Film Commission, Credito d’Imposta Legge 244/2007, Patrocinio Comune di Prato. Distribuzione Home Video: General Video. Esterni: Prato, Pistoia. Musica: G. F. Handel “Largo”, F. Chopin “Sonata 2 op. 35 in Si Minore, F. Chopin Berceuse in Re Maggiore op. 57. M. P. Mussorgsky “Une Larme”, S. Rachmaninoff “Suite op. 5”, eseguiti al piano da Riccardo Marchi. Interpreti: Filippo Massellucci, Andrea Pelagalli, Gianluigi Tosto, Marco Nanni, Andrea Anastasio, Andrea Cerofolini, Gianmarco Dolfi, Francesco Tasselli, Giorgio De Giorgi, Gianfelice D’Accolti, Stefania D’Amore, Michela Parzanese, Giulia Anastasio, Emanuele Biagi, Luigi Bacci, Francesco Di Puglia, Adriano Gelli, Fabrizio Becheri.
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[NdR – L’autore dell’articolo ha un suo blog “La Cineteca di Caino”]