Argentina, è vero default?
L’Argentina è nuovamente in default? Vediamo di capire come stanno le cose. Quando il Paese cessò i pagamenti, nel gennaio del 2002, il suo debito pubblico era diventato impagabile, i mercati e il FMI avendo chiuso ogni fonte di credito. Poi, nel 2005 il Presidente Kirchner impose la sostituzione dei vecchi buoni con nuovi titoli, per un valore tra il 25 e il 30% di quelli originari, con scadenza trentennale. L’offerta fu riaperta nel 2010 e complessivamente circa il 93% dei creditori l’accettò. Rimasero fuori piccoli gruppi di risparmiatori riuniti in varie “task force” e disposti a dar battaglia, ma la parte maggiore finì in mano di fondi americani che in Argentina è di moda chiamare “avvoltoi”. Sono fondi che comprano a bassissimo prezzo titoli di paesi in difficoltà, o già in cessazione di pagamento, agendo poi in via giudiziaria per recuperare l’intero ammontare. Se ci riescono, il guadagno può essere favoloso.
Alcuni di questi fondi hanno iniziato sei anni fa un’azione giudiziaria contro l’Argentina, reclamando il valore di un miliardo e duecentomila dollari arrivati oggi, con gli interessi accumulatisi, a più di un miliardo e mezzo. L’hanno fatto davanti a un tribunale di New York, perché tutti i contratti di emissione di buoni da parte del Governo di Buenos Aires riconoscono quella giurisdizione (altrimenti ben pochi stranieri avrebbero sottoscritto le emissioni argentine). La causa è andata avanti per sei anni davanti a un giudice newyorkese, Thomas Griesa. Finalmente, il giudice ha emesso una sentenza con la quale si impone all’Argentina di pagare il 100% del credito vantato dai fondi. La Corte di Appello di New York ha confermato questa sentenza e la Corte Suprema degli Stati Uniti l’ha avallata, rifiutandosi di discutere il ricorso presentato dall’Argentina. Il dato di fatto è dunque chiaro: una sentenza definitiva, di un foro giudiziario liberamente accettato, obbliga il Paese a pagare. La logica vorrebbe dunque che si negoziassero forme e tempi di esecuzione, come suole accadere tra creditori e debitori di buona fede. Ma vi sono due complicazioni. La prima, di ordine legale, è che presso i tribunali di New York pendono altre cause di creditori dell’Argentina, per un totale di circa 15 miliardi di dollari. Accettare di eseguire la sentenza vuole dire aprire la strada all’accettazione di altre decisioni giudiziarie.
Ma vi è una causa di preoccupazione anche maggiore: i regolamenti del 2005 e 2010 comprendono la c.d. “clausola Rufo” (Rights upon future offers) in base alla quale, se il Governo argentino in qualsiasi momento migliorasse le condizioni fatte ai creditori che avevano accettato il regolamento, questi avrebbero il diritto a chiedere le stesse condizioni. Si riaprirebbe, in sostanza, un’operazione che coinvolge più di 100 miliardi di dollari. In realtà, esperti legali mettono in dubbio questo argomento, già che l’accettazione di un ordine giudiziario non equivale ad una offerta volontaria di condizioni migliori, ma il rischio esiste e non va preso alla leggera. Tuttavia, la clausola Rufo scade il 31 dicembre di quest’anno. Dopo, il Governo resta libero di negoziare come crede. Vi era dunque una ragionevole attesa che l’azione argentina si concentrasse sulla maniera di ottenere, dal giudice o dai fondi creditori, una sospensione dell’esecuzione della sentenza fino a quella data. Non avrebbe dovuto essere impossibile. Pare che i fondi avrebbero accettato una dilazione in cambio del versamento argentino di una garanzia argen tina di 250 milioni di dollari.
Qui, però, entra in gioco la seconda e più grave difficoltà, quella politico-ideologica. Lungo tutta la vicenda, il Governo Kirchner ha duramente attaccato l’azione degli “avvoltoi” e del giudice Griesa considerato loro complice, definendola estorsiva e dichiarando che non vi avrebbe ceduto mai. Negli ultimi mesi, ha anche cercato di mobilitare l’appoggio di Paesi amici contro il sistema finanziario internazionale. Lasciamo stare Griesa, che ha semplicemente applicato le leggi americane. Ma i fondi speculativi (utili solo per evitare che certi buoni “spazzatura” perdano del tutto il loro valore) sono l’espressione del capitalismo finanziario più spietato e parassitario, quello che ha portato più volte l’economia all’orlo del collasso. Purtroppo però in questo caso hanno dalla loro parte una sentenza ferma, contro cui la retorica può far poco.
Ma, tornando alla questione di partenza, perché default? L’Argentina, dal 2005 ha puntualmente pagato le quote del debito e aveva già deposito quella del primo semestre 2014, 450 milioni di dollari, al Bank of New York, suo agente di pagamenti. Ma Griesa ha ordinato al Banco di non pagarli finché l’Argentina non regoli il debito con i fondi creditori titolari della sentenza. Questa decisione si può criticare in astratto, ma in concreto esiste. Il termine per il pagamento scadeva il 30 luglio scorso. Le somme, per questa disposizione giudiziaria, non sono state pagate, per cui l’Argentina è entrata formalmente in default. Un defaul t di tipo molto speciale, di cui il Governo nega con veemente indignazione l’esistenza. Il ragionamento non è inconsistente: abbiamo pagato, i soldi ci sono, sono già in possesso del Banco, la colpa non è nostra. Non c’è difficoltà di pagamento, ma di riscossione da parte dei creditori. Non dice però che la causa di questo blocco sta nel rifiuto a eseguire una sentenza. Comunque, la percezione esterna è diversa. Mercati e qualificatrici di rischio mostrano di considerare che, almeno tecnicamente, il default esista e si preparano ad agire in conseguenza.
Quali i risultati? Ovviamente, nulla di paragonabile alla crisi del 2002. Ma l’Argentina ha accumulato nel tempo un deficit fiscale e di bilancia dei pagamenti. Il primo è stato coperto con l’emissione di carta moneta, che ha alimentato un’inflazione giunta al 30% annuale. Il secondo è stato affrontato attingendo alle riserve della Banca Centrale e imponendo un forte controllo dei cambi e delle importazioni e alti tassi d’interesse. Questi rimedi hanno avuto come conseguenze, (certo indesiderate ma prevedibili) stagnazione dell’economia, corsa al dollaro nel mercato parallelo con forte caduta del Peso, e conflittività sindacale. Negli ultimi mesi, tuttavia, il Governo – se non altro per attraversare senza troppi traumi i dieci mesi che gli restano – aveva mostrato l’intenzione di tornare a una linea meno eterodossa, finanziandosi sui mercati del credito (oggi i tassi d’interesse nel mondo sono bassi e il rapporto debito pubblico-PIL argentino è molto contenuto). Aveva perciò regolato le pendenze con la spagnola Repsol e con il Club di Parigi (tra cui l’Italia) e cominciato a pagare alcune sentenze arbitrali avverse. Questa apertura era stata accolta con favore, tra l’altro dal Governo italiano. Ora, la possibilità di ricorrere ai mercati pare al momento preclusa. Il Governo dovrà continuare a emettere moneta e a prendere soldi dalla Banca Centrale, ma queste risorse sono limitate nel tempo e di esse non dispongono per finanziarsi né le imprese private né le Province, quasi tutte in gravi difficoltà finanziarie.
La speranza è che qualche porta negoziale si riapra nel prossimo futuro, con un po’ di ragionevolezza delle due parti. L’una dovrebbe rassegnarsi al fatto che le sentenze si eseguono, o se ne pagano le conseguenze; l’altra dovrebbe accettare di essere meno avida. Ogni vero amico dell’Argentina dovrebbe dare una mano in questa direzione.
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