Animali feroci
Ci sono voluti gli orrori che stanno compiendo i guerriglieri della jihad islamica contro cristiani, yazidi, curdi e sciiti, per risvegliare la coscienza dell’Occidente che pareva addormentata. Si sta ripetendo quello che accadde negli anni Novanta in Bosnia o in Kossovo. Anche allora, file interminabili di persone costrette a fuggire per terrore, migliaia di persone trucidate barbaramente, tra cui donne, vecchi, bambini. Allora, la coscienza mondiale mise anni per ridestarsi e ci volle la scoperta delle fosse di Srebrenica, con centinaia di cadaveri, o le centinaia di migliaia di kosovari in fuga perseguiti dalle forze serbe perché Stati Uniti e NATO dicessero basta e intervenissero con la decisione e i mezzi che essi soli posseggono.
Eppure, quello che si stava preparando in Irak non era un mistero per nessuno, tutti sapevano che i fanatici della jihad – gente che fa apparire persino Al-Qaeda ragionevole – nel conquistare grandi territori avevano in mente solo odio, odio e distruzione di tutto quanto non si piega alla loro oscura, barbarica legge. Bene li ha definiti un sacerdote cristiano rifugiato a Erbil: sono “animali feroci”. Ci è voluta la prova evidente della loro ferocia, la scelta imposta alla gente tra convertirsi o morire, perché il Consiglio di Sicurezza della Nazioni Unite emettesse una condanna non assortita però da alcuna misura effettiva, e che anche la Lega Araba vi si associasse (con non poca ipocrisia: gli jihadisti sono finanziati e armati da vari Stati arabi, quelli sulla carta più evoluti e amici dell’Occidente, come Qatar e Arabia Saudita). E perché il Sommo Pontefici mettesse alla fine da parte l’irenismo del dialogo a tutti i costi, reclamasse protezione per i cristiani perseguitati e gridasse la sua indignazione, il suo forte richiamo: “non si può fare la guerra, non si può uccidere in nome di Dio”. E ci è voluto lo spettacolo delle folle in fuga mostrate dalla TV perché gli Stati Uniti reagissero.
Certo, si può comprendere il dilemma in cui si trova il Presidente Obama. Non vuole e non può riaprire una guerra in Irak dissennatamente voluta dal suo predecessore, pur sapendo che la responsabilità della situazione attuale risale a George Bush e ai falchi della destra, ed è determinato a non inviare soldati americani sul terreno. Ha ragione, ma una Superpotenza come gli Stati Uniti, se vuol proteggere gli interessi propri e dei suoi alleati e mantenere il suo standard di moralità, non può voltare gli occhi dall’altra parte o aspettare che altri le tolgano le castagne dal fuoco. Ci sono situazioni in cui la prudenza è saggia (come nell’affare siriano, in cui Obama, fermandosi sull’orlo di un intervento militare diretto, ha quasi evitato disastri maggiori) ed altri in cui è solo colpevole debolezza.
Ora, Washington si è finalmente mossa su varie linee: massiccio aiuto umanitario agli iracheni in fuga, pesanti bombardamenti aerei sulle posizioni militari degli jihadisti, aiuti militari alle milizie curde, rimaste per ora quasi sole a combattere con qualche efficacia la marea dei fanatici. Basterà? Non credo: Obama stesso ha detto con franchezza che la questione non si risolverà in poche settimane o mesi. Alcune cose sono però certe: la prima è che non si può lasciare che si installi tra Irak e Siria un’entità jihadista potente e in grado di controllare e finanziarsi con il petrolio, decisa a combattere e distruggere l’Occidente; la seconda è che il problema non riguarda solo gli Stati Uniti, ma anche l’Europa, la Russia, l’India, la Cina, lo stesso Iran. È da augurarsi (voglio dire: è da credere) che le diplomazie di questi Paesi cerchino in questi momenti una forma di intesa. Putin dimentichi le sue ambizioni in Ucraina, l’Occidente e la smetta di rimuginare sulla Crimea: il pericolo islamista che avanza è cosa di ben altra portata e minaccia tutti. La terza cosa è ovvia: ben poco si potrà fare se gli iracheni stessi non trovano la saggezza di superare le loro dissidenze confessionali e facciano fronte comune al pericolo che li minaccia ormai molto da vicino con una controffensiva militare ben preparata ed efficace (per favore, non ci si parli di dialogo: il dialogo con chi pensa solo alla maniera migliore di farci fuori e lo sbandiera nei suoi minacciosi messaggi, è un suicidio). Se la jihad giungesse a Bagdad, che senso avrebbero le dispute che oppongono Al Maliki e Al Abadi, che senso avrebbe l’odio che tutti nella Regione riservano ai curdi? Sarebbe davvero strano se, alla fine, questi risultassero i soli in grado di resistere alla marea jihadista e l’Occidente non potesse fare altro che appoggiarsi su di essi, come sta già cominciando a fare. Strano, ma inevitabile, anche se questo non piacerebbe affatto a chi, come la Turchia, teme i curdi come una minaccia alla sua integrità territoriale e da sempre li perseguita.
Secondo le notizie di stampa, Renzi ha parlato al telefono con Obama di questi problemi, e il Ministro degli Esteri Mogherini ha fatto capire che si sta valutando qualche azione italiana, non solo per partecipare, con americani, inglesi e francesi all’opera umanitaria, ma anche per rafforzare la resistenza curda. Non so quanto queste prospettive siano realistiche. Credo però che l’Italia possa svolgere un ruolo proprio nel mobilitare le risorse dell’Unione Europea (con tutti i miei dubbi sulla sua efficienza). E intanto, per favore, si occupi dell’altro pericolo molto simile a quello iracheno, la situazione in Libia che ci tocca da vicino e nella quale forse non è impossibile per noi svolgere un ruolo più impegnato.
Un’ultima considerazione, e mi scuso se vengo ripetendola da tempo: il mondo in cui viviamo non è tranquillo né sicuro, non indeboliamo le nostre già scarse capacità di difesa e teniamoci stretto il migliore strumento di garanzia che abbiamo, quella Alleanza Atlantica che da 65 anni ci fornisce la sicurezza di cui abbiamo bisogno.
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