L’Italia dei diritti acquisiti
Nel tempo della spending review e del pressing dell’Europa per le riforme strutturali, di fronte alla necessità di un cambio di passo deciso del nostro paese, c’è un’Italia che di fronte alle reali necessità di rinnovamento, conserva gelosamente i propri privilegi. Da una parte gonfiano il bilancio della spesa pubblica e dall’altro rendono il sistema paese meno competitivo rispetto alle altre realtà europee.
I diritti acquisiti nel tempo si sono trasformati in privilegi, sia nel settore pubblico come in quello privato. Bisogna però precisare che il concetto di privilegio non deve essere visto in senso stretto, ma va inteso come sistema più ampio di riduzione della capacità produttiva.
Tra le categorie nella quale la selva dei privilegi si fa più folta è sicuramente quella sindacale. Lo Statuto dei Lavoratori, che riconosce il diritto al distaccamento del lavoratore per impegni ed incarichi sindacali. L’abuso di questo istituto è consistente in alcune realtà, in particolare quelle pubbliche, dove rapporto dipendenti/delegati sindacali raggiunge percentuali ingiustificate, con costi importanti per la collettività.
Fortunatamente il governo sembra ora muoversi su questa direzione; è infatti di ieri la notizia che, nel testo della Riforma delle PA, in ottemperanza del processo di spending review, dal primo settembre scatterà infatti una riduzione del 50% delle delle prerogative sindacali, fra cui permessi e distacchi. Però, il privilegio è nel pubblico impiego anche nella rigidità imposta dalla contrattazione collettiva, è un privilegio sfuggire ad un rigido monitoraggio della produttività e lo è anche il ridotto utilizzo della mobilità dei lavoratori.
È facile oggi accusare la classe politica di godere di benefici inaccessibili ai normali cittadini, è molto più difficile ammettere di avere un paese ingessato dalle sue fondamenta. I principali interventi legislativi volti a ridurre il gap tra lavoro pubblico e lavoro privato, nel tempo, hanno visto sempre l’opposizione rigida dei sindacati arroccati in posizioni ideologiche ormai arcaiche.
Ma i privilegi si annidano anche nelle baronie universitarie, dove il ricambio generazionale è utopia per molti. Vi sono squilibri nella magistratura, la cui pausa estiva è di quarantacinque giorni, in un paese in cui i tempi processuali sono oggetto di infrazione europea.
A completare l’immenso oceano dei “diritti rafforzati” c’è anche e soprattutto il mondo delle potenti professioni. Gli albi professionali, il cui controllo sfugge all’occhio dello stato (i bilanci delle organizzazioni territoriali non sono oggetto di controllo e verifica), premono fortemente per mantenere quei diritti acquisiti da tanti anni di efficienti intrecci politici. Anche in questo mondo le resistenze alle riforme sono sempre state pressanti, riforme per liberalizzare il mercato o per garantire prestazioni che siano competitive.
Insomma, per accontentare l’opinione pubblica, oggi si tenta (invano) di intervenire su quelli che sono i privilegi della politica, dai rimborsi alle indennità. E così se anche i commessi del parlamento lamentano la riduzione di stipendio e se il vano tentativo di ogni governo di mettere mano a pensioni d’oro e vitalizi regionali senza ottenere alcun successo, respinto da sentenze che tutelano il “diritto acquisito”, animano il dibattito più dei reali interventi strutturali, è chiaro come ogni categoria non sia disposta a cedere parte dei propri privilegi per la ristrutturazione del paese.
Le varie raccomandazione, dall’Europa alla troika, vanno nella direzione della riduzione dei vincoli sociali ed economici, necessari per ritornare ad essere competitivi sul piano internazionale. Se, nella situazione attuale, nessun governo troverà il coraggio di mettere mano a questa selva, il paventato commissariamento del nostro paese potrebbe drammaticamente realizzarsi.
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