Birmania, apertura alle liberalizzazioni

Nay Pyi Taw – Fino a qualche anno fa probabilmente non ci avrebbe scommesso nessuno, eppure la Birmania (Myanmar) oggi è uno dei paesi più attraenti per l’investimento estero. Dal 2011, anno nel quale si è insediato il primo governo “democratico” dopo oltre cinquant’anni di repressione da parte della giunta militare, molte cose sono cambiate. Di fatto, dopo decenni di controllo sistematico dei settori e delle aziende strategiche per il paese, negli ultimi mesi si è assistito a un processo inverso di liberalizzazione quasi sfrenata.

Sebbene restino molte perplessità sul futuro politico del paese, con le incertezze che riguardano la candidatura a presidente del Premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi (ostacolata da una Costituzione che le impedisce di guidare la nazione), molto più chiara sembra la situazione sul versante economico dove le porte del paese si sono spalancate alle opportunità d’investimento straniero. Naturalmente, non poteva che essere la Cina la prima ad approfittare di tale apertura economica, la quale ha già pompato nelle casse del paese oltre $14 miliardi, mentre sono ancora lontane le altre potenze mondiali con Stati Uniti e India che hanno investito rispettivamente “solo” $242 e $278 milioni. Il dragone rosso è, infatti, seguito nella graduatoria degli investimenti esteri dalla confinante Thailandia con oltre $10miliardi. C’è da registrare anche la presenza italiana con Eni che si è assicurata due contratti di esplorazione. La maggior penetrazione dei paesi asiatici, oltre all’ovvia vicinanza geografica, è dovuta al fatto che alcuni settori chiave per l’economia quali quello bancario e assicurativo non sono stati ancora completamenti liberalizzati. Infatti, per ora si è pensato a costruire le infrastrutture di base per lo sviluppo, ovvero strade e edifici, e in questo si sa, la Cina la fa da padrona. A pesare sono inoltre le sanzioni economiche imposte da Europa e America, che saranno probabilmente ammorbidite solamente a seguito di un miglioramento promesso dei diritti umani, cose delle quali i cinesi non hanno la fama di preoccuparsi molto. Lo stesso Segretario di Stato americano John Kerry, in una recente visita nel paese, ha avvertito i leader di governo birmani che gli USA non tollereranno passi indietro sui diritti umani e sul processo di transizione democratica.

Certamente, il governo dovrà essere molto bravo a regolamentare l’afflusso di questi enormi capitali esteri facendo sì che i benefici siano distribuiti anche tra la popolazione locale. Infatti, la storia è già piena zeppa di “colonizzazioni celate”, dove a godere dei vantaggi economici derivanti dallo sviluppo di un paese sono solo i pochi “soliti noti” e, dove la corruzione dilaga. Il governo dovrà inoltre evitare di essere schiacciato dall’arrivo delle grosse multinazionali, che sebbene apportino capitale e know-how molto spesso s’impadroniscono di veri e propri settori strategici dell’economia relegando le meno avanzate aziende locali a ruoli secondari, e c’è il rischio che questo accada anche in Myanmar dove il settore più sviluppato e quello dell’attività mineraria e dell’agricoltura (con la produzione di riso in testa). Secondo uno studio McKinsey, infatti, la crescita dell’economia birmana è destinata a quadruplicare entro il 2030 se il paese investirà maggiormente in industrie più hi-tech.

Tutti nel paese sono consapevoli dell’enorme potenzialità di crescita dell’economia come del fatto che gli investitori non verranno a far beneficienza. La stessa Aung San Suu Kyi qualche tempo fa ha affermato che gli investitori sono i “benvenuti” purché conducano il proprio business con senso di responsabilità e con un occhio di riguardo alla popolazione locale. Dunque ci sono tutte le carte in regola, anche grazie all’integrazione del mercato unico dell’Asean, del quale Myanmar fa parte ed è presidente di turno, affinché il paese diventi un vero e proprio motore di sviluppo per l’intera regione.

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