Cronache dai Palazzi
Continua la stagione dei rinvii. Mentre è lotta aperta sulla spending review – tagli alla Sanità in testa – il Parlamento non concretizza il pacchetto di nomine, in sospeso da mesi, per la Corte costituzionale (due giudici) e il Consiglio superiore della magistratura (otto membri laici). Il premier Renzi ha inoltre rinviato la direzione del partito dei dem alla settimana prossima, complice la maretta sollevata dall’inchiesta bolognese.
Ma non sono solo le vicende giudiziarie a complicare le cose in casa dem. Il Pd è dilaniato da alcune battaglie intestine che rischiano di inficiare il dialogo. Il caos emiliano non ha fatto altro che portare a galla alcune questioni irrisolte, prima fra tutte la direzione del partito, che secondo l’ex segretario Pierluigi Bersani non può confondersi con la direzione a Palazzo Chigi. Renzi dovrebbe quindi abbandonare l’incarico di leader dei democratici? “Io non gli ho mai chiesto di dimettersi da segretario – afferma Bersani – ma se fossi diventato premier avrei lasciato la guida del Pd dopo un nanosecondo”. Dopo settimane di tira e molla la minoranza dem sembra quindi pronta a varcare la soglia del Nazareno rivendicando le proprie ragioni. I “duri” (come Fassina, D’Attorre e Gotor) non vogliono restare lontani dalla cabina di regia e vorrebbero raggiungere un compromesso. La soluzione non sarebbe una gestione “unitaria” ma una segreteria “plurale” in cui poter impiantare una discussione comune a proposito di lavoro, legge elettorale e legge di Stabilità. Solo in autunno – se Renzi porterà avanti un documento comune sul modello di partito e accoglierà le istanze della sinistra su Italicum ed emergenza economica – la segreteria “plurale” potrà diventare “unitaria”. “Una gestione unitaria si può ricominciare solo se c’è una riflessione comune su come ci si organizza nel momento in cui il Pd è al governo”, ammonisce Bersani.
Secondo la maggior parte dei dem, inoltre, le primarie restano una “creatura” da salvare a tutti i costi. Si pronunciano sulla questione anche alcuni studiosi del campo. Gianfranco Pasquino, politologo di area Mulino, ribadisce che “le primarie si devono fare, perché un partito che vuole essere democratico non deve mai stravolgere le sue regole a scapito di un candidato indesiderato come Balzani. Tutto il resto è vecchia politica e bruttissima politica”.
Sul fronte di Palazzo Chigi il premier Renzi è invece chiamato a fare i conti con i tagli e chiede ai suoi ministri di formulare delle ipotesi di risparmio, dicastero per dicastero, affinché non sia varcata la soglia del 3% del budget fissata nell’ultima riunione dell’esecutivo. Tutto ciò mentre arriva l’ennesimo bollettino della Banca centrale europea che avanza i propri dubbi sulla capacità dell’Italia di rispettare l’impegno a mantenere entro il 2,6% il rapporto tra deficit e Pil.
Senza investimenti non ci può essere crescita: è stata questa la conclusione del convegno dell’Eurofi (il consueto meeting a cadenza semestrale che riunisce istituzioni, società e soggetti finanziari europei), nel quale si sono incontrati il presidente della Bce Mario Draghi, il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan e il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco. “Gli investimenti sono una delle vittime illustri di questa crisi”, ha ammonito il numero uno dell’Eurotower, ribadendo la necessità di agire per modificare positivamente un quadro economico caratterizzato da “bassa inflazione, bassa crescita, alto debito e alta disoccupazione”. Le politiche monetarie, strutturali e di bilancio devono procedere “di pari passo”. Tutta l’Europa è in balìa della crisi, ma alcuni Paesi – tra cui l’Italia – risultano più penalizzati di altri proprio per il fatto che non hanno portato a termine delle riforme strutturali fondamentali. Per il governatore Visco la politica monetaria e le riforme sono le chiavi di volta per affrontare la crisi. Per promuovere gli investimenti, in particolare, occorre migliorare l’accesso al credito adempiendo quattro priorità: riduzione del costo del capitale; rilancio delle cartolarizzazioni; sviluppo di fonti di finanziamento sul mercato dei capitali, investimenti nelle infrastrutture. Per Padoan, infine, manca un sforzo per la crescita e l’occupazione e l’azione deve essere comune ai diversi Paesi dell’Eurozona, ciò che l’Italia cercherà di concretizzare durante il proprio semestre di presidenza europea. Per il ministro dell’Economia occorre insistere su una migliore integrazione del mercato interno; riforme strutturali supportate da un migliore monitoraggio delle iniziative nazionali; investimenti che siano in grado di contribuire alla domanda e nel contempo rappresentino una cambiamento strutturale sul piano dell’offerta.
Tutte buone ricette, ma l’economia è una questione che deve avere il proprio riscontro nella realtà dei fatti, in cui incombe l’incubo della spending review e dei numerosi tagli da apportare al sistema – tra cui il sistema sanitario nazionale (e il settore della Difesa) – con l’obiettivo di ridurre l’Irap per le imprese, come annunciato anche in tv dal premier Matteo Renzi.
La rivolta bipartisan sollevata dalle Regioni contro i tagli alla Sanità si estende da nord a sud. L’ipotesi è che il Fondo sanitario nazionale possa essere ritoccato per i prossimi due anni. Il Fondo sanitario è il primo candidato a perdere risorse, visto che l’imposta sulle attività produttive finanzia proprio il sistema sanitario.
Il Patto per la salute sottoscritto poco più di due mesi fa da governo e Regioni prevede infatti che vi possano essere riduzioni rispetto alle risorse pattuite per il prossimo biennio (112 miliardi per il 2015 e 115,4 per il 2016). “L’intenzione non è comprimere i servizi ma ridurre i costi”, rassicura tuttavia il sottosegretario all’Economia, Giovanni Legnini, nonché candidato alla carica di vicepresidente del Csm.
“Con il governo abbiamo siglato in agosto un patto d’onore sulla sanità – tuona il presidente della Conferenza delle Regioni, il renziano Sergio Chiamparino – se si rompe viene meno il rapporto di fiducia e di collaborazione”. Chiamparino sottolinea che il “patto” con il governo firmato a inizio agosto prevedeva “un fondo da 109 miliardi di euro per il 2014, con un aumento di circa 2 miliardi e mezzo in più l’anno, per il 2015 e il 2016, per finanziare il servizio sanitario nazionale”. Il Patto per la salute prevede inoltre che entro il 31 dicembre siano scritti dei “piani di riordino dei servizi sanitari”.
Dal Pd si leva invece il grido di Pierluigi Bersani che invita Renzi a fare un passo indietro: “Il Partito democratico – afferma Bersani lasciando intendere chiaramente la sua posizione – non può tradire l’universalismo della sanità pubblica”. Tuttavia Bersani invita ad aspettare “la proposta sul Def”, in particolare “quando si parla di 16-20 miliardi, bisogna vedere se è sostenibile”. “Non affidiamoci alle voci” avverte l’ex leader del Pd.
Sul fronte degli obiettivi raggiunti, l’esecutivo di Matteo Renzi ha formalizzato il pacchetto di assunzioni nel settore della scuola che il ministro dell’Istruzione Stefania Giannini aveva annunciato alla fine di luglio. È stata portata a termine l’assunzione di oltre 30mila tra docenti e amministrativi per la copertura di posti vacanti nella scuola, oltre 15mila gli insegnanti stabilizzati, ai quali si aggiungono 13.300 docenti di sostegno, 4.600 tecnici e amministrativi e 620 dirigenti scolastici. Il premier continua a considerare la scuola un settore strategico, terreno di investimenti più che di tagli. Per la prossima legge di Stabilità l’obiettivo generale rimane comunque quello di rastrellare 20mila miliardi (il 3% della spesa complessiva), e buona parte dei proventi dovrebbe arrivare dalle revisione delle spese. Le risorse recuperate dovranno servire prima di tutto a confermare il bonus da 80 euro e a rafforzare il taglio del cuneo fiscale già avviato con la riduzione dell’Irap.
La legge elettorale, ritornata sulla cresta dell’onda, molto probabilmente scavalcherà la riforma della Pubblica amministrazione. Sembra sia stata individuata una ‘quadratura del cerchio’ secondo cui Renzi sarebbe ormai pronto a mettere nero su bianco alcune correzioni, alzando la soglia per il premio di maggioranza, abbassando lo sbarramento per i non coalizzati e introducendo una qualche forma di preferenza (magari con il meccanismo del capolista bloccato). In sostanza una sorta di “Toscanellum” contro cui sono insorte già diverse proteste.
Forza Italia non sarebbe comunque intenzionata ad un’approvazione celere della nuova normativa elettorale per evitare di concedere a Renzi la possibilità di tornare alle urne in caso di difficoltà in Parlamento. La presidente della Commissione Affari costituzionali, Anna Finocchiaro, assicura invece che ben presto la riforma del sistema di voto “sarà incardinata in Commissione”, mentre il ministro per le Riforme, Maria Elena Boschi, auspica che la riforma della legge elettorale sia approvata dal Senato entro la fine dell’anno.
Il clima continua quindi ad essere incandescente, sia sul fronte delle riforme sia dal punto di vista dei partiti attraversati, ciascuno a suo modo, da una profonda crisi di ristrutturazione interna, legata in primo luogo ad una dura revisione della leadership. Il risultato è un’atmosfera confusa e fumosa in cui le decisioni tardano ad arrivare – la vicenda dei giudici della Consulta e dei membri del Csm è l’esempio più eclatante – e in cui i piani si ribaltano nel giro di poche ore: ieri si parlava di affrontare prima la riforma della Pubblica amministrazione, oggi invece la priorità spetta magicamente alla legge elettorale, per poi ribadire da Palazzo Chigi che il Jobs act, ossia la riforma del lavoro al momento bloccata in Parlamento, è la vera “patente di guida di Renzi”. Lo scoglio più duro per il premier-segretario sarà però imporre il Jobs act al suo partito, tentando di dimostrare ai mercati e a Bruxelles “che fa sul serio e che può guidare bene questo Paese”.
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