ISIS, la strategia di Obama
La strategia indicata dal Presidente USA per contenere e poi distruggere lo Stato Islamico è ampia e parte da una premessa giusta: l’idra dell’estremismo terrorista ha una testa, che va colpita ed eliminata. Ma ha due “buchi”.
Il primo e più evidente è la Siria. La difficoltà di accettare come alleato il regime di Assad è ovvia. Assad ha rivoltato l’Occidente con la sua brutale repressione della rivolta e non piace a Turchia e Paesi del Golfo per i suoi legami con Teheran. Inoltre, è un cliente della Russia. Ma legami con Teheran e con Mosca non dovrebbero essere un ostacolo insuperabile. Come si può pensare di sostenere a lungo ed efficacemente uno sforzo contro l’estremismo islamico senza una certa collaborazione (o almeno senza l’aperta opposizione) di Iran e Russia? Come si pensa di ottenere una legittimazione ONU, che pur è sempre negli obiettivi di governi democratici? Il fatto è che siamo in guerra, come ci ha ricordato il Papa. L’Occidente, la sua sicurezza, i suoi interessi, i suoi valori, sono sotto attacco e la minaccia è grave non solo per la forza militare del nemico manifesto, o per il controllo che esso potrà esercitare su una risorsa strategica come il petrolio, ma per la capacità che esso ha di colpirci al nostro interno, attraverso le migliaia di fanatici che vivono tra noi, che abbiamo accolto e ai quali non abbiamo neppure chiesto un impegno di lealtà nei confronti delle nostre leggi. Siamo in guerra e in guerra storcere il naso di fronte ai possibili alleati è un lusso che non ci si può sempre permettere. Al tempo dell’invasione del Kuwait, la Siria fu accolta come parte dell’alleanza. Che cosa è cambiato da allora? Davvero si potevano avere illusioni sul regime del vecchio Assad? Certo, nel frattempo ci sono state la “primavera araba” e la repressione della rivolta in Siria (con o senza armi chimiche da parte del regime, cosa tuttora dubbia). Pensiamo che Assad padre avrebbe reagito in modo diverso da Assad figlio?
Obama ha scelto una strada complicata, bombardare le postazioni dell’ISIS in Siria senza il permesso siriano, armare e sostenere l’opposizione “democratica” la quale dovrebbe ora lottare su due fronti: il regime e la jihad. A me sembra assurdo e spero che il Governo italiano e altri governi alleati degli Stati Uniti se ne rendano conto. Facciamo un’ipotesi: il Califfato islamico minaccia apertamente e direttamente Roma e l’Italia (il Ministro Alfano la ha riconosciuto davanti al Parlamento). Supponiamo che per combattere questa minaccia servisse l’aiuto siriano; che faremmo, storceremmo il naso?
L’altro “buco” della strategia di Obama sta nella sin troppo proclamata volontà di non inviare truppe di terra. Affermarlo con tanta solennità è autolesionista, ma non è la prima volta che Obama si taglia le gambe da solo con impegni che poi si manifestano o sbagliati o impossibili da rispettare. Certo, la decisione è in linea con la filosofia di Obama e può parere comprensibile sul piano politico interno, ma non è coerente con le premesse: se c’è un pericolo grave e imminente per gli Stati Uniti e per l’Occidente, va combattuto con tutti i mezzi necessari. È un pericolo assai più reale di quello rappresentato a suo tempo da Saddam Hussein. Perché una risposta diversa? Si capisce che gli americani possano sentirsi stanchi di fare i gendarmi del mondo e questa volta preferiscano mandare a combattere al loro posto altri (non chiamiamoli mercenari). Ma è una opzione sostenibile? Che accadrà se chi combatte sul terreno dovesse non farcela? Se dovesse essere sconfitto? Per evitarlo gli Stati Uniti e i loro alleati dovranno impegnare sempre maggiori forze aeree e aumentare il proprio sostegno “a fondo perduto” a iracheni e peshmerga. Bastera? Sinceramente spero di si, ma è lungi dall’essere sicuro.
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