New York, Koons ci illude di nuovo
I primi 35 anni di carriera per il 59enne Jeff Koons, riuniti in Jeff Koons: A Retrospective, fino al 12 ottobre presso il Whitney Museum of American Art di New York. Poco più di 120 lavori, che presentano l’intero spettro di continua e assoluta crescita dal 1978 a oggi, riempiono quasi totalmente i 4 piani dell’edificio del 1966 di Marcel Breuer, nell’ultima esposizione prima del trasloco nella primavera 2015 in quello di Renzo Piano nel Meatpacking District.
Sin dall’inizio, al secondo piano, l’allestimento rivela le scelte derivanti dallo stretto rapporto di dialogo e scambio intercorso tra il curatore Scott Rothkopf, l’Artista e, non da ultimo, il personale del Museo. Sono presentate in ordine cronologico le opere e le serie più iconiche del percorso di Koons, da Inflatables and Pre-New (1978-79), The New (1980-87) , Equilibrium (1983-98), Luxury and Degradation (1985), Statuary (1986), Banality (1988), Made in Heaven (1989-91), Celebration (1995-2009), Easyfun (1999-2000), a Easyfun-Ethereal (2001), Popeye (2003-11), Hulk Elvis (2005-12), Antiquity (2008-13) e Gazing Ball (2013).
Nel Pantheon dei viventi più quotati c’è pure lui. Lui sì che si sa vendere e imporre come artista-celebrità, se anche crea ancora qualche attrito definirlo l’erede di Andy Warhol, ma chi altro potrebbe esserlo se non lui? È estremamente entusiasta di esporre nello spazio che nel 1996 l’aveva ispirato così tanto e che aveva contribuito al suo successivo arrivo nella Grande Mela; si augura così di essere per qualcuno anch’egli d’esempio. Ci ha quasi convinti, l’illusionista Koons, educatissimo all’Arte. Forse dietro cifre da capogiro davvero si cela una missione, una connessione desiderata.
Il Koons che annuncia sé stesso e la propria opera tende a ripetere la propria cantilena, forse cercando di costruire un’immagine di sé solida e di sventare il rischio di contraddirsi, come un criminale imputato in un processo. Ma forse il nostro artista poliedrico è sia il devoto padre di famiglia, il lussurioso ex-marito della barzelletta naturalizzata italiana Cicciolina, che, maturato, si auto-censura, sia colui che si proclama connettore della società e della sua generazione. Lui è tutto questo, ex falso sequitur quodlibet, lui va contro il principio di non-contraddizione. Lui è lo stesso che, servendosi dell’Arte unificatrice di tutte le discipline, si sottrae alle categorie aristoteliche.
Ha rivisitato il ready-made di Marcel Duchamp, ha celebrato la cultura di massa, ha messo alla prova la fabbricazione industriale. Nel suo marasma, alimentato dallo spirito estetico e da quello critico, tra pubblicità, oggetti vari nel più tradizionale bronzo e in acciaio inox, ci lascia sospesi in un liquido amniotico, in una campana di vetro. Le superfici lustre dei suoi presunti gonfiabili ci piazzano uno specchio davanti, in cerca di un dialogo e una riflessione, non sempre recepiti, o il loro vuoto ci lascia immutati palloni-gonfiati? Koons è aperto a tutte le possibilità, a tutte le libertà, a tutti i dialoghi, a tutti i futuri, abbandonata la sua ansia da prestazione iniziale.
Lui dice di vivere per l’affermazione dell’astratta accettazione del sé: questa è la sua avanguardia. I suoi ready-made non sono altro che sottolineature atte a isolare oggetti comuni a cui attribuire il valore di metafore per le persone. Gli oggetti perdono ogni significatività; sono le persone, invece, a importare. La libertà e l’atto vanno accettati dal singolo che, così abilitato, potrà accettare l’individuo altro da sé, senza giudicare inutilmente. Nasce allora la connessione, il senso di comunità, di famiglia. Le sensazioni fisiche sfociano in quelle filosofiche, e quindi metafisiche. Non c’è alcun ordine gerarchico, ogni singolo è perfetto di per sé e c’è un luogo destinato a ogni dialogo. Soggettivo e oggettivo convivono in rapporto circolare. Lui medesimo si realizza facendo ciò che desidera per sé, il proprio atto, invitando chiunque a fare lo stesso.
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