Scozia, United Kingdom

Londra – La Scozia ha deciso: farà ancor parte del Regno Unito. Il referendum sull’indipendenza ha consacrato un risultato quasi scontato fino a qualche mese fa, ma non poi cosi certo a poche ore dal voto. I secessionisti guidati da Alex Salmond, carismatico leader dello Scottish National Party (SNP) hanno quasi sfiorato il ribaltone finale. Infatti, sebbene i numeri del risultato finale parlino chiaro, 55% a favore della permanenza nell’unione contro il 45% per l’indipendenza, i riflessi del voto sono molto più complessi.

Innanzitutto, la questione più critica cioè la promessa di un’altra devoluzione dei poteri a Edimburgo; una concessione fatta da Cameron a “malincuore”, ma dovuta, visto come si erano messe le cose. È stata certamente la mossa che ha fatto pendere l’ago della bilancia verso il “No”. Una decisione presa dalla triade dei partiti “unionisti” a Westminster, che, insieme alla discesa in campo di un insolito agguerrito Gordon Brown (al quale Cameron deve certamente molto) ha permesso a Londra di salvare l’Unione. La promessa dovrà ora essere mantenuta, e si allargherà a una platea molto più grande del previsto, con Galles, Irlanda del Nord e la stessa Inghilterra tutte “in fila” fuori da Downing Street a chiedere ed esigere un maggior trasferimento di poteri, soprattutto in materia fiscale. Cameron ha già annunciato la creazione di una commissione “ad hoc” (che, sarà guidata da Lord Smith of Kelvin) e ha promesso che una nuova bozza legislativa per la devoluzione sarà pronta entro gennaio.

Dunque Salmond ha perso (ha dichiarato che non si ricandiderà alla guida del partito SNP, annunciando anche le sue dimissioni da Premier scozzese), ma verrà probabilmente consacrato come il “Braveheart” che ha messo in ginocchio l’establishment politico londinese. Secondo molti commentatori politici, infatti, Cameron ha sì salvato la pelle ma non la faccia. Di fatto, tutti gli scozzesi, indipendentemente dal voto che hanno alla fine espresso, ricorderanno con orgoglio lo straziante appello finale del premier britannico ad Aberdeen nel quale affermava “se non vi piaccio, non starò qui per sempre” ma “salvate l’Unione”.

Già, ma come si arrivati fino a tanto? Partiamo dall’origine, ovvero dal “lontano” ottobre del 2012 quando Cameron e Salmond firmarono la bozza che fissava le modalità e la data del referendum. Cameron, convintissimo della vittoria finale, aveva commesso un errore strategico importante impostando il quesito referendario come uno solo: sì o no all’indipendenza, scartando l’opzione “devo-max” (una versione più estesa del decentramento concesso da Tony Blair negli anni 90’). Il risultato di ieri, quindi, ha visto Salmond portare a casa la “devo-max” senza neanche il bisogno di votarla direttamente, ma come “gentile concessione” di Westminster. Ora l’SNP è, quindi, legittimato a sedersi al tavolo delle trattative non più come “mendicante” ma potendo fare la voce grossa.

Una seconda vittoria indiscutibile che la Scozia può attribuirsi con questo referendum, è sicuramente quella di una grande lezione di democrazia espressa con una partecipazione al voto dell’oltre 86%. Una terza affermazione, o meglio una “buona” consolazione per gli indipendentisti, è che la più grande città del paese – Gasgow – abbia votato a favore della scissione.

Insomma all’ultima occasione possibile (almeno per un po’), quando il traguardo sembrava quasi alla portata, la ragione ha prevalso sulla passione e sul nazionalismo. Gli scozzesi hanno compreso che con uno “staterello” (sia pur piuttosto ricco di petrolio) non avrebbero potuto competere e sopravvivere in uno scenario mondiale dominato da una globalizzazione sfrenata che costringe gli Stati a unirsi non tanto per volontà e idealismo ma piuttosto per mera necessità e realismo.

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