Scozia, Ucraina, Medio Oriente: che succede nel mondo
Mentre noi ci dilettiamo sui 1000 giorni e sull’art. 18 (che battaglia antiquata e di retroguardia , che sapore di anni Settanta!) nel mondo succedono di continuo cose che direttamente influiscono su di noi e sul nostro futuro. La settimana che finisce ne ha viste varie: in Scozia, in Ucraina, nel Medio Oriente.
La Scozia ha detto no al distacco dalla Gran Bretagna, voluto da politici interessati a un potere senza limiti esterni nella loro provincia e a gestirne in autonomia la ricchezza petrolifera. Per questo hanno giocato su vecchie pulsioni radicate nella psiche locale. Gli scozzesi, uniti all’Inghilterra da quattro secoli, non sono stati conquistati o sottomessi con una guerra coloniale; è stato un sovrano scozzese, Giacomo Stuart, figlio di Maria Stuarda, ad accedere per successione al trono d’Inghilterra dopo Elisabetta I, unendo così i due popoli. Da allora, l’animosità scozzese verso gli inglesi fa parte del folclore locale (nei suoi aspetti migliori, è una rivalità di tipo sportivo, che ha prodotto buoni risultati in molti campi). Ma l’appartenenza a un grande Paese e a un grande impero ha portato alla Scozia più vantaggi che altro e tanti scozzesi hanno nutrito, in guerra o nell’amministrazione, nella vita economica e in quella politica (Blair, ad esempio, è scozzese) una solida lealtà alla Gran Bretagna, per la quale tanti hanno dato la vita. Il risultato del referendum prova che sui risentimenti irrazionali hanno prevalso questa lealtà, questo senso di appartenenza a qualcosa di più grande di una semplice provincia, o in alcuni casi semplicemente la considerazione dei giusti interessi scozzesi, del futuro dei loro figli, che la Regina Elisabetta aveva giustamente invocato uscendo da un silenzio protocollare. Il margine è stato più ampio del previsto: una differenza di dieci punti tra il no e il sì. Se si conta il 15% che non ha votato, e che si può ritenere indifferente all’indipendenza, questa ha raccolto meno del 40% dei consensi.
Per che la cosa riguarda anche i non inglesi? Perché tutto quello che accade in Europa ci tocca tutti da vicino e il risultato scozzese significa la vittoria della ragione sui pregiudizi. Nel mondo in cui viviamo, solo entità di dimensioni adeguate possano difendersi, competere, o semplicemente sopravvivere e la corsa a dividersi in frazioni è dovunque sia – e a meno che non esistano profonde, insuperabili ragioni ostative, di lingua, cultura o religione – del tutto dissennata. Beninteso, il ragionamento non si limita a singoli Stati nazionali, ma si applica all’intera Europa. La ragione impone che si cerchino dimensioni adeguate al mondo moderno, con la sua economia globale e le sue sfide di sicurezza planetarie. La nostra dimensione deve essere duplice: nazionale ed europea. Il campanilismo intollerante è sempre deteriore. Piccolo sarà magari bello per chi non sa pensare, o magari sognare, in grande ma nella realtà è assurdo e autolesionista. Quando finalmente lo capiremo, smettendo di correre dietro al mito arcadico delle piccole patrie?
Una seconda lezione viene dalla vicenda scozzese: in una vera democrazia c’è modo di risolvere problemi di questo tipo senza bombe, senza attentati, senza odio, ma civilmente, per le vie della dialettica politica. E in Occidente è possibile una convivenza basata sul rispetto reciproco e su autonomie larghe, ma non tali da intaccare la fondamentale unità nazionale, quali quelle che la Scozia aveva già ottenute e che ora Londra promette di ampliare, estendendole anche ai gallesi, agli irlandesi del Nord e agli stessi inglesi. Apprendiamola tutti, questa duplice lezione, l’apprendano i Salvini e compagnia e capiscano che la Patria deve restare unita, unita in Europa, per esistere e contare (è inutile che fingano di esultare davanti al voto scozzese, che ha sconfitto anche loro, come ha sconfitto catalani e baschi in Spagna).
In Ucraina, qualche lieve schiarita c’è stata. Lo stesso giorno in cui Parlamento Europeo e Rada ucraina ratificavano l’accordo di associazione con l’UE, per la quale un intero popolo si era sollevato l’inverno scorso, il Governo ucraino ha chiesto – e l’UE ha consentito – di rimandare di qualche anno l’entrata in vigore dell’accordo doganale che irrita la Russia, preoccupata di vedere i propri prodotti messi fuori mercato dalla concorrenza europea, tanto superiore per qualità. È stato un gesto di saggezza, che forse aiuterà a smorzare un po’ le tensioni con Mosca. Nel contempo, il Governo ucraino ha presentato un disegno di legge diretto ad adeguare le norme sulla libertà economica e sui diritti umani agli standard europei che sono (piaccia o no a Salvini, Grillo e compagnia) i più alti nel mondo. Diritti umani e rispetto delle minoranze sono un problema chiave per quel Paese e seguire in materia criteri europei può essere solo utile alla sua pace e al suo sviluppo civile. E difatti, la Rada ha subito votato la concessione di una forma di autogoverno per la durata di tre anni alle zone russofone occupate dai ribelli. Non è molto, ma è qualcosa. In una situazione così volatile, fare previsioni ottimistiche sarebbe sciocco. Ma ritengo che la strada appena profilatasi sia quella giusta, anche se essa portasse, com’è probabile, al distacco finale di quelle regioni. L’importante è che questo accada con metodi democratici, senza spargimento di sangue, senza suscitare spettri di guerra mondiale. In questa materia, la Storia recente ci offre due modelli opposti: quello civile e pacifico della ex-Cecoslovacchia e quello sanguinoso dell’ex-Jugoslavia. Essendo il risultato finale comunque lo stesso, perché ostinarsi sulla via peggiore? È da sperare che anche Putin se ne renda conto.
Di fronte alla minaccia jihadista, la Conferenza di Parigi ha prodotto quello che ci si attendeva: una coalizione ampia e decisa a combattere lo stato islamico con tutti i mezzi disponibili. Il comunicato finale, e i commenti di Hollande e del suo Ministro degli Esteri, suonano come una vera dichiarazione di guerra, ma si tratta di una risposta più che dovuta alla dichiarazione di guerra rivoltaci dal Califfato. Era tempo! Solo chi ha gli occhi bendati dall’ideologia o dalla semplice stupidità può credere che con l’estremismo forsennato e feroce si possa dialogare. In questo contesto è positivo che la Russia abbia dichiarato di “voler fare la sua parte” (ci sono voci per ora non confermate di aerei russi che opererebbero a sostegno delle forze irachene impegnate sul terreno). Segno che Putin capisce che quello che è in gioco nel Medio Oriente è più importante e grave della russofonia in Ucraina e richiede una leale collaborazione tra Est e Ovest contro una minaccia che è, dopotutto, comune (che lo capiscano anche i “falchi” in America è altrettanto importante: ci vorrà tutta l’intelligenza di Obama).
Resta il nodo della Siria, che Parigi non ha sciolto, ma ha anzi confermato. Non è un nodo da poco: condiziona in larga misura l’efficacia dell’azione contro la jihad in territorio siriano e rende aleatoria la collaborazione con Russia e Iran. La Francia pare averne dato atto, stabilendo che i suoi aerei interverranno in Irak ma non in Siria. Per l’Italia il problema non si pone a livello operativo, ma a quello politico penso proprio di sì. E prima o poi dovrà essere risolto.
©Futuro Europa®
Un Commento
L’articolo dell’Ambasciatore Jannuzzi è come sempre interessante e puntuale ed abbraccia problematiche ampie e complesse. Vorrei però aggiungere qualcosa sulla Scozia e sui ‘nazionalismi’ in genere. E’ chiaro che non è facile, per noi Italiani, comprendere il senso e la forza di una identità nazionale: ma per rendersi conto di quanto siano cose attualissime, e anche sensate, basta parlare con i Francesi a Parigi, con gli Inglesi a Londra. E con gli Scozzesi ad Edimburgo, e soprattutto nelle Highlands, com’è capitato di fare a me. Se Londra ha concesso oggi un referendum non è solo per democrazia, ma per calcolo: perché un referendum è una soluzione pacifica e a buon mercato. Ma soprattutto perché sapeva di vincere se fosse riuscita, come l’intervento finale della Regina ha ottenuto, di portare a votare praticamente tutti i residenti in Scozia. Come si collegano allora una forte identità nazionale tale da portare ad un referendum con la sconfitta in quello stesso referendum? E’ una questione di numeri che Londra, appunto, conosce benissimo. Tutto nasce con l’Unione. Dopo la benevola firma di quell’atto, Londra passò ai fatti: mise progressivamente fuori legge la lingua gaelica-scozzese, le armi e persino le cornamuse. E alla fine fece il colpo grosso con le ‘Clearances’, ovvero gli ‘sgomberi’, del 1785: spinse i proprietari terrieri a cacciare i contadini dalle loro terre per sostituirli con le pecore. Già, pecore al posto dei contadini. Perché l’allevamento per la produzione di lana rendeva di più. E i contadini, che in Scozia non erano servi della gleba ma avevano da sempre una forte identità ed uno spirito libero, alla fine dovettero emigrare in massa. Gli Inglesi avevano spopolato da due secoli la Scozia: quindi, in una battaglia di culture fondate su un’eredità di secoli, avevano vinto a tavolino. Ecco perché hanno accettato, con qualche rischio, il referendum, e su questa base c’è da chiedersi se quell’11 per cento di vantaggio non sia, a conti fatti, non un gran distacco ma un inquietante segnale.
Il petrolio spingeva alla divisione? Sì, certo, anche. E’ chiaro che se hai le trivelle di fronte a casa tua gli eventuali guadagni e risarcimenti li vuoi tu. Il problema della difesa ha spinto invece verso il No? Chissà: anche gli Scozzesi hanno sotto gli occhi esempi come la Svizzera, per non parlare di Lussemburgo, Liechtenstein o Andorra. Il fatto è che grazie agli ‘sgomberi’ di allora gli Scozzesi veri non arrivano alla metà dei residenti in Scozia. Lo hanno detto i numeri di quello che, più che un referendum, è stato forse un censimento.
Una considerazione finale: tutto questo deve scandalizzarci? Io penso di no.
Per alcune semplici ragioni: l’Europa alla quale tanto teniamo può essere solida solo se unità nella diversità, se è Europa delle Nazioni. Ma bisogna identificarle bene, queste nazioni, senza temere di trovarle spesso, alla fine, al di là e al di dentro dei confini dei Paesi che conosciamo e che guerre e trattati hanno delineato. Follia? L’Europa un pensierino del genere lo ha già fatto: quando, concentrata sull’Economia, ha scelto come destinatari di programmi e fondi strutturali le Regioni e non i Paesi. Pensando ‘economicisticamente’ cioè, l’Europa ha dovuto prendere atto del fatto che le caratteristiche socioeconomiche che identificavano territori omogenei tali da poter ricevere finanziamenti omogenei si potevano ricondurre ad aree poste all’interno, oppure estese oltre i Confini dei Paesi membri. Può darsi che, semmai un giorno dovesse trovarsi a ragionare – e per giunta liberamente – su di sé non in termini di economia ma di politica, l’Europa possa essere indotta a considerare con lo stesso criterio l’omogeneità di realtà politiche diverse da quelle dei Paesi convenzionali. Puntando quindi ad un processo di unificazione politica ‘dal basso’, quasi confederale, nella necessità di creare un’unità davvero solida e non costellata di bombe ad orologeria, di esplosivi potenziali, come un campo minato.