Hong Kong vs Pechino: un Paese, due sistemi

L’onda della contestazione  prende sempre più forza a Hong Kong dove gli studenti hanno invaso il distretto finanziario, riprendendo lo slogan “Occupy Central”, già utilizzato a primavera durante una prima fase di questa campagna di disobbedienza civica. Questa mobilizzazione ha ripreso vita nei giorni scorsi mostrando per le strade scene caotiche alle quali Hong Kong non è abituata. La città conosce oggi i peggiori disordini dal suo passaggio sotto amministrazione cinese nel 1997. Perché questa febbre?

Per capire l’entità di queste manifestazioni (la cosiddetta “Rivoluzione degli ombrelli”, dal simbolo utilizzato dai giovani nei cortei), bisogna andare indietro nel tempo. Tornare ai colloqui con Londra per la restituzione di Hong Kong alla Cina. Nel 1984, la Repubblica popolare si era impegnata a mantenere il sistema economico e giuridico particolare di quella che sarebbe diventata  una “Regione Amministrativa speciale”. Alcune formule, come l’adozione del suffragio universale, rientravano nel progetto. Nasceva la politica definita: “un Paese, due sistemi”. L’ultimo Governatore della colonia, Chris Patten (1992-1997), ha addirittura accelerato queste riforme democratiche superando l’accordo concluso con Pechino qualche anno prima. Risultato? Nel momento in cui Hong Kong rientra nel girone cinese, il 1° Luglio del 1997, la Cina sotterra parte delle misure e delle promesse di Patten. Pechino rimanda in particolare l’aumento del numero dei rappresentanti al Consiglio legislativo (il Parlamento di Hong Kong) eletti a suffragio universale. Solo la metà di questi membri vengono eletti democraticamente. Gli altri sono i portavoce dei tycoons e delle grandi famiglie, molto docili nei confronti della Cina, in cambio di opportunità commerciali sul Continente.  Ciò non toglie che il sistema politico da più diritti agli abitanti di Hong Kong che hai “fratelli” continentali. Gli abitanti di Hong Kong beneficiano in effetti delle libertà di espressione, di stampa, di culto e di raduno, molto vicine a quelle in vigore nella maggioranza dei Paesi democratici. Ma le autorità cinesi hanno cercato con tutti i mezzi di frenare le richieste politiche del territorio durante le laboriose discussioni a tre tra il rappresentate dell’Esecutivo – scelto dalla Cina – Pechino e il campo democratico. Il calendario delle riforme della transizione prevedeva l’elezione democratica del capo dell’Esecutivo nel 2012, ma nel 2010, la Cina ha spostato la scadenza al 2017. Il campo democratico si è allora diviso. Alcuni denunciavano la decisione di Pechino. Altri, in maggioranza, hanno accettato di temporeggiare, per non irritare troppo l’ombroso vicino. Che cosa ha dunque fatto esplodere nuovamente la contestazione? La scintilla è stata il “Libro Bianco” sul futuro della “Regione Amministrativa speciale” reso pubblico a Giugno e che non è stato accolto proprio bene da coloro che nel 2012 avevano accettato di rinunciare a delle vere elezioni. In questo documento, non c’è nessuna evoluzione sull’elezione a suffragio universale dell’insieme del Consiglio legislativo, né sulla fine dell’accreditamento preventivo da parte di Pechino dei candidati alla carica di capo dell’Esecutivo. I democratici e parte della popolazione si sono sentito presi in giro. Da qui la forte mobilizzazione (500mila persone) durante le manifestazioni organizzate, come ogni anno, per l’anniversario della restituzione, il 1° Luglio.

Sembrerebbe che gli abitanti di Hong Kong siano refrattari ai “valori asiatici” secondo i quali il progresso economico e sociale offerto da Pechino siano sufficienti a far decadere le aspirazioni democratiche. I sondaggi, come il successo del “referendum” ufficioso sull’applicazione del suffragio universale diretto di fine Giugno, mostrano in effetti il loro attaccamento alle libertà. Durante le elezioni organizzate sul territorio il risultato del campo democratico si aggira, in modo costante, intorno al 60% dei voti. Esiste una sorta di linea rossa al di là della quale il popolo di Hong Kong si mobilita ogni volta che Pechino oltrepassa certi limiti. Nel 2002, decine di migliaia di persone erano scese in piazza per protestare contro un progetto di legge anti-sovversione, conosciuta come Articolo 23, che avrebbe concesso a Pechino ampio spazio nel reprimere qualsiasi manifestazione di opposizione. Ci si chiede ora come possa evolvere il rapporto di forza tra manifestanti e autorità cinesi. Pechino deve far attenzione a non sporcare troppo la sua immagine di Stato rispettoso delle regole giuridiche. La Cina ha tutto l’interesse di trovare una via d’uscita amichevole. Una soluzione potrebbe essere le dimissioni del Capo dell’Esecutivo, Leung  Chun-ying, e sostituirlo con la persona che si occupa delle questioni di Hong Kong a Pechino. Forse un modo per rilanciare i negoziati. Ma a Pechino, qualcuno sembra più essere tentato ad usare le maniere forti. Le forze di polizia della “Regione Amministrativa speciale” sono composte da abitanti di Hong Kong e quindi suscettibili di non essere abbastanza fermi. Sia nel proteggere i manifestanti, che per le autorità di Pechino. In effetti la polizia è intervenuta, ma troppo timidamente, tanto che i manifestanti sono convinti che si tratti di bande organizzate, delle “triadi” come vene chiamata la mafia ad Hong Kong, inviate e pagate dalle autorità pro Pechino con l’obbiettivo di provocare. Si sa, Pechino non ama i compromessi. Il centro non può accettare compromessi, sarebbe un affronto peggiore che perderci la faccia. Qui vengono messi in gioco il suo prestigio e quindi la sua capacità di mantenere il controllo. Contrariamente ai braccio di ferro precedenti, l’opposizione democratica di Hong Kong è oggi una sfida diretta per l’autorità del Governo centrale. Hong Kong e Pechino sembrano dirigersi verso un confronto la cui fine non sembra essere delle più felici. Dopo una settimana di assembramenti pacifici, la speranza di negoziare si affievolisce sempre più.

Nei Palazzi di Pechino si parla anche di “cospirazione” voluta dalle fazioni in lotta in seno al potere cinese. Sentendosi minacciati dalla campagna anti corruzione lanciata dal Presidente Xi Jinping che ha già fatto cadere diverse “tigri”, alcuni mandarini del regime presi di mira avrebbero tutto l’interesse ad una destabilizzazione di Hong Kong ed eventuali effetti sul territorio cinese per indebolire il potere centrale. Pechino sembra vedere il pericolo ovunque, come l’idea che il vento di rivolta sia arrivato dall’estero e che l’obbiettivo dei manifestanti sia di recuperare la direzione politica di Hong Kong e farne un territorio indipendente. Ma forse l’affronto maggiore è che i militanti vogliano fare dell’ex colonia la testa di ponte di un più vasto movimento democratico in Cina. Ricordiamo che lo scorso Aprile ha aperto a Hong Kong un museo dedicato agli eventi di Piazza Tienanmen. L’obiettivo è chiaro: far conoscere i fatti ai turisti cinesi. Nel 2013 sono stati 40 milioni a visitare Hong Kong. Niente fa più paura a Pechino che un “contagio” democratico, per non aggiungere la rottura tra le Penisola e il Continente. Fine della promessa di Deng Xiaoping “un Paese, più che un Sistema”?

Da segnalare intanto in Italia, il Flash mob organizzato dai Popolari per l’Italia di Mario Mauro per solidarizzare con la battaglia dei giovani di Hong Kong. A Matera, dove era in corso la due giorni della loro prima Convention nazionale, in apertura della seconda giornata, sabato scorso, tanti ombrelli aperti e grande striscione “Freedom for Hong Kong” sul sagrato della Chiesa dedicata a San Francesco proprio nel giorno in cui si ricorda il Santo Patrono d’Italia.

©Futuro Europa®

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